Il 23 maggio del 1992, sull’autostrada Trapani-Palermo, all’altezza di Capaci, un clamoroso attentato di mafia uccise Francesca Morvillo, consigliere della corte di Appello di Palermo. Sedeva accanto al marito, Giovanni Falcone, e l’immediato e durevole scalpore riguardò soprattutto quest’ultimo, che era l’evidente principale obiettivo dell’attentato.  

Sul momento, il nome di Morvillo fu da molti racchiuso nella sorte collettiva dell’attentato che con Falcone aveva ucciso «la moglie e gli uomini della scorta», come ritualmente si dice, con una pietosa concessione di memoria a personaggi di contorno. In questo caso, a Morvillo fu conferita una medaglia d’oro al valor civile in quanto, moglie di Falcone «gli rimaneva costantemente accanto sopportando gli stessi disagi e privazioni, sempre incoraggiandolo ed esortandolo nella dura lotta intrapresa contro la mafia».
Quello era il destino delle donne, se morivano accanto al marito. Avevano il diritto della scena semmai come vedove. Una vedova fu in effetti straziante protagonista dei funerali di stato per la strage di Capaci: il grido di Rosaria Costa, moglie dell’agente Vito Schifani rimase a segnare la tragedia. Per il momento Morvillo restò sullo sfondo. Nelle mille fotografie familiari a tutti, Falcone fa coppia con Borsellino, amico, collega, e vittima anch’egli di mafia. 

Al centro della scena

Un libro di testi e memorie curato per le edizioni Treccani da tre donne di Palermo, la scrittrice Cetta Brancato, la storica Giovanna Fiume e la giurista Paola Maggio, ricolloca Francesca Morvillo al centro della scena. Vi irrompe con molti segni di un movimento tellurico. La scena è innanzi tutto quella della facoltà di Giurisprudenza di Palermo negli anni Sessanta, dove Morvillo si laurea con lode a ventun anni. L’anno seguente vince il concorso in magistratura e due anni dopo prende servizio. 

È il mondo di ieri, sulle soglie del cambiamento. Giovani di buona famiglia, figli o fratelli di magistrati, di avvocati, di giuristi, solidi di una buona educazione liceale, si misurano in una facoltà di alto prestigio, completano in quattro anni il corso di studi e subito si presentano ai concorsi pubblici. È un mondo scosso da cambiamenti epocali e Morvillo ci aiuta a decifrarli, ma in controtendenza, perché vi si colloca senza rumore, con pacatezza.

Nel 1969 vengono ammessi all’università tutti i diplomati, e il mondo aureo dell’élite esplode. Presto saranno modificati gli ordinamenti universitari, i percorsi si allungheranno, si diversificheranno. Non ci sarebbero stati più “giudici ragazzini”. Ma altri sono i mutamenti di quegli anni Sessanta, e uno specialmente qui ci riguarda. Nel 1963 è deciso che anche le donne possono entrare in magistratura. Il fatto che prima di allora non lo fossero va spiegato, perché non rientra nell’evidenza. Ma è appunto l’evidenza che le escludeva. Lo stesso era accaduto con l’ammissione delle donne all’avvocatura, o al suffragio.

La legge del 1874

La legge che regolò l’avvocatura, nel 1874, non menzionò tra i requisiti di accesso il sesso: l’esclusione era implicita, e fu sancita di fronte a poche pioniere che ne chiedevano ragione. Agli inizi del Novecento, la richiesta di alcune donne di essere ammesse alle liste elettorali fu portata nei tribunali, e fu sentenziato che il divieto alle donne non era stabilito dalla legge perché implicito. Si toccava una questione di genere dalle profonde implicazioni. L’universalità dei diritti individuali, sancita già alla fine del Settecento, si scontrava con le differenze di genere. E dunque se nel caso dei diritti civili la capacità delle donne era la regola e l’eventuale incapacità l’eccezione, per i diritti politici l’incapacità era la regola. Gli argomenti coloriti dell’infirmitate sexus, della fragilità nervosa delle donne, o quello della loro inclinazione alla vanità, erano solo orpelli discorsivi. Il fatto è che il mondo del potere, degli ordinamenti, del diritto, era maschile, maschile nel linguaggio, nei valori, nei rapporti di forza, un tipo di virilità figlio della storia, tutto da indagare.

E tale era ancora a metà Novecento. Le donne erano state ammesse all’avvocatura e al voto, ma nel 1959 il Consiglio di stato dichiarò inammissibile il ricorso di tre donne contro il bando per uditori giudiziari riservato agli uomini. Solo nel 1960 la Corte costituzionale mutò d’avviso, cosicché nel 1963 la legge ammise le donne, e due anni dopo le prime donne entrarono nei ranghi giudiziari. Di lì a poco vi entrò Francesca Morvillo.   

Il ruolo della Consulta

La Corte, nel suo costante riferimento alla Costituzione, ebbe dunque un fondamentale ruolo maieutico nel fare accettare il principio dell’uguaglianza, e non solo sulla questione femminile. Nello stesso 1965, quando si svolse il primo concorso cui furono ammesse le donne, l’Associazione nazionale dei magistrati, riunita a congresso a Gardone, dichiarò che spettava al giudice applicare direttamente le norme costituzionali, dovendo «essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare un’applicazione delle norme conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione».

Una svolta importante. E la tesi di laurea di Morvillo era in piena sintonia con quei princìpi. Era intitolata Misure di sicurezza e stato di diritto e sottraeva lo stesso concetto di stato di diritto a ogni rigidità normativa, vedendolo come realizzazione di una visione umana, “personalistica”; da qui, seguendo un’idea di giustizia riparativa, le tesi di Morvillo sulle misure di sicurezza (che hanno natura giurisdizionale, non amministrativa); sulla pericolosità dei soggetti (da valutarsi in riferimento al comportamento); sul ravvedimento e sulla risocializzazione del reo come obiettivi della giustizia penale. 
Sono idee che si inseriscono in un flusso di eventi proprio dell’epoca. Idee che ispirano la riforma penitenziaria del 1975, oppure, nello stesso 1975, la riforma del diritto di famiglia, che riconosceva alla donna una condizione di completa parità con l’uomo. 

Comportamenti nuovi?

L’omaggio rivolto a Morvillo consente dunque di misurare su un caso singolo la natura degli eventi. In quegli anni, una volta conquistata la parità, la cultura femminile affermava il valore della differenza. E allora ci domandiamo se l’ingresso delle donne, oltre a una parità conquistata, o riconosciuta, abbia introdotto inclinazioni, valori, comportamenti nuovi, specificamente femminili.

L’argomento è complesso, tanto più se a scriverne è un uomo. Le numerose testimonianze personali su Francesca Morvillo ricordano il suo carattere garbato, il buon senso, il vivo senso di umanità, l’inclinazione all’insegnamento, l’attenzione prestata all’infanzia e ai giovani (in 16 anni di servizio presso il tribunale dei minori). Sono doti femminili? Una bella testimonianza di una magistrata sulla presenza delle donne segnala «l’acquisizione del diverso punto di vista e della capacità delle donne di confrontarsi con la “densità del reale”».  

Forse potremmo aggiungere l’attitudine all’ascolto, il rispetto, la compassione nei rapporti con gli imputati o i collaboratori di giustizia. Sono atteggiamenti che qui evochiamo perché sono quelli di Giovanni Falcone («Ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano.. non gli ho mai dato del tu.., non lo ho mai insultato..»). E benché sia Falcone che parla, non rinunciamo a ipotizzarli come tratti femminili, soprattutto se li contrapponiamo a tratti virili in realtà anch’essi stereotipati (rigore, fermezza, energia, rigidità, severità).
Certo è che quei tratti più “umani” sono più congeniali al dettato costituzionale,  almeno nella misura in cui quel dettato è ispirato al principio “personalista” – che mette al centro la persona, non l’individuo – che è proprio della cultura cattolica ed è tradotto nell’art. 2c («La repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»).

Di quella cultura, costituzionale e cattolica, era figlia Morvillo. È la cultura di molti italiani. Non è detto che lo sia in particolare delle donne, ma poiché la presenza delle donne in magistratura è oggi un fatto scontato, come ieri lo era l’esclusione, tanto che esse sono la maggioranza degli organici, viene da pensare che quella del magistrato possa essere una professione propriamente femminile.
Purtroppo, rispetto all’appassionata, autentica sensibilità che alimenta la riflessione dottrinaria e le innovazioni legislative, sono stridenti le notizie di cronaca che vengono dalle carceri italiane. Anche per questo sono da apprezzare i tanti magistrati che, come Morvillo, non si rassegnano.

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