L’incidente di Castellammare riporta la mente a quanto accaduto quattro anni fa sul Mottarone, due incidenti simili per la dinamica ma anche per altri aspetti. «La manutenzione dopo un certo tempo non è più sufficiente a garantire sicurezza totale», commenta il professor Rosati, già perito nel caso del crollo del ponte Morandi
La fune traente che si spezza. L’impianto frenante che smette di funzionare. La cabina fuori controllo che scivola sui cavi a tutta velocità fino a sbattere contro uno dei piloni dell’impianto prima di cadere nel vuoto. L’incidente di giovedì 17 alla funivia che collega Castellamare di Stabia al monte Faito riporta la memoria a quanto accaduto sul Mottarone il 23 maggio 2021. Sentito da Domani, il professor Gianpaolo Rosati – ordinario di tecnica delle costruzioni al Politecnico di Milano e già perito nel caso del ponte Morandi – spiega che, al di là delle similitudini tra le dinamiche, uno dei problemi che accomuna i due casi è quello di una concezione progettuale ormai superata. Dopo oltre cinquant’anni di vita non è possibile avere certezze sulla sicurezza nemmeno rispettando i cicli di manutenzione.
L’incidente di ieri
Alle 14.40 le due cabine, una per senso di marcia, partono dalle stazioni di monte e valle della funivia che collega il comune campano al monte Faito. Le condizioni metereologiche non sono ottimali ma non destano una preoccupazione tale da imporre lo stop all’impianto. L’allarme giallo diramato poche ore prima dalla protezione civile, d’altronde, riguardava pioggia e temporali ma non il vento, principale elemento di criticità per il trasporto su fune. Così le cabine iniziano il loro viaggio con a bordo 15 persone: dieci nella cabina che scende verso Castellammare, cinque in quella che sale verso il Faito.
La corsa da una stazione all’altra dovrebbe durare otto minuti ma alle 14.46 qualcosa va storto. La fune traente, quella che muove le cabine, si spezza facendo scattare l’allarme. Dalla cabina di controllo la cabina a valle è ben visibile ma di quella a monte non sembra esserci traccia, sparita nella nebbia che si è formata lungo il tragitto. Iniziano le chiamate al manovratore. Nessuna risposta. Le ricerche, partite immediatamente, portano alla tragica scoperta: la cabina è precipitata nel vuoto portando con se i cinque passeggeri.
Quello che è accaduto in quota, al momento, lo si sa solamente da ricostruzioni ipotetiche. Nel momento in cui si è rotto il cavo la cabina, ormai quasi giunta a destinazione, rimane sospesa nel vuoto a mille metri di altezza. Poi inizia la sua folle discesa lungo il cavo di sicurezza che ancora la tiene in quota. Scivola per oltre un chilometro acquisendo sempre più velocità fino a quando il carrello si sgancia lasciandola precipitare nel vuoto.
La vita utile
«C’è sicuramente una similitudine con quanto accaduto al Mottarone ma bisogna essere molto cauti», commenta il professor Gianpaolo Rosati. L’assenza di foto che mostrino la cabina a monte, quella precipitata, non permette di comprendere appieno la dinamica di quanto successo ma alcuni elementi sembrano già evidenti. Pur non sbilanciandosi sulla dinamica dell’incidente, il professore sottolinea quello che è un problema più ampio.
«In episodi come questo le cause sono molteplici e spesso ad essere determinante è il fattore umano» spiega Rosati aggiungendo che, però, c’è un elemento che non può non essere considerato: la vita utile di un impianto.
«Sia nel caso del Mottarone che nell’incidente di ieri parliamo di impianti che hanno oltre cinquant’anni di vita – sottolinea – e a volte una manutenzione, anche ben fatta, non basta». Esiste infatti, secondo Rosati, un problema di tipo strutturale che ha a che fare con il cosiddetto «ciclo di vita utile» di impianti di questo tipo. «Qualsiasi impianto è progettato per funzionare in modo quasi perfetto per cinquant’anni circa, eccezion fatta per le opere strategiche (ospedali, ponti ecc.) che hanno una durata doppia proprio per il loro ruolo».
Si tratta della «vita utile» di un impianto, quel lasso di tempo in cui la struttura è all’avanguardia per tecnologie e progettazione e per questo funziona in maniera ottimale. Dopo quel periodo si va incontro a una obsolescenza progettuale: «La concezione progettuale, per quanto si possa intervenire, rimane obsoleta. Negli anni le tecnologie e il modo di concepire gli impianti cambia, e cambia il modo di realizzarli», spiega Rosati: «Non è un caso che in oggetti e impianti progettati nello stesso periodo storico alla lunga si presentino problemi simili: è una questione trasversale».
L’utilità della manutenzione
E alla domanda se in questo senso la manutenzione può risolvere i problemi la risposta è chiara: «Secondo lei è giusto allungare all’infinito la vita di un impianto costruito per durare un tot di anni? Non significa che la manutenzione è inutile, attenzione, ma che ha dei limiti». Il rispetto dei cicli di manutenzione, insomma, è determinante per evitare guasti o incidenti ma poco può quando un impianto arriva a “fine vita”.
«Il problema – prosegue Rosati – è, come spesso accade, di carattere economico. Per allungare la vita di un impianto oltre i 50 anni bisognerebbe riprogettarlo da zero. Demolire e ricostruire è la via migliore perché ammodernandolo e basta rimangono i limiti strutturali di un progetto basato su tecnologie di oltre 50 anni fa. Ma rifare un impianto da zero ha un costo decine di volte superiore rispetto a mettere delle toppe ai problemi che si presentano».
E infatti la funivia del monte Faito aveva una concezione obsoleta con, ad esempio, una sola fune portante mentre la maggior parte degli impianti di oggi ne usano due. «Una struttura è assolutamente sicura, se viene fatta correttamente manutenzione, durante il suo ciclo di vita utile. Dopo non si può essere certi al cento per cento nonostante si intervenga per rendere minimo il rischio».
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