Flashback, 20 luglio 2001. Piazza Alimonda. A terra il corpo di un ragazzo poco più che ventenne. È morto, ucciso da un proiettile, il corpo devastato dal peso di un Defender dei carabinieri che gli passa sopra due volte. Su quel mezzo un altro ragazzo di vent’anni, divisa da carabiniere, ausiliario, è lui che ha sparato. Ha gli occhi che fissano il vuoto mentre lo portano in ospedale, nelle orecchie gli esplodono le urla degli altri due a bordo del Defender, il suono delle sirene, la voce di quel funzionario di polizia che urla a un manifestante «sei stato tu, lo hai ucciso», e una pietra sporca di sangue.

Vent’anni fa. Genova, il G8, le violenze, il più grande e grave episodio di repressione di massa e brutalità perpetrate dalle forze dell’ordine di un paese europeo e democratico. Carlo Giuliani morirà ragazzo, e ragazzo resterà per sempre. Lui, Mario Placanica, il carabiniere che quel giorno sparò, non ce la farà mai a diventare uomo. È lui stesso a confessarlo, con la voce spezzata dall’emozione, vent’anni dopo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a casa sua, in un paesino della Calabria dove vive da anni.

«La verità – ci dice – è che quel giorno sono morto anch’io. Non sono più lo stesso, sono un uomo solo, abbandonato da tutti. Malato... Ma non sono un assassino». Il suo avvocato, Antonio Ludovico, gentilmente ci ricorda come andò l’inchiesta sulla morte del giovane Carlo, quali furono gli esiti per il suo assistito. «La vicenda di Mario Placanica si è fermata alle soglie del processo. Fu lo stesso pm, Silvio Franz ad avanzare al giudice per le indagini preliminari una richiesta di archiviazione. Carlo Giuliani è certamente morto per un colpo sparato dal mio assistito, che ha mirato non ad altezza d’uomo, ma verso l’alto. Le perizie hanno stabilito che il colpo fu deviato da un calcinaccio lanciato dai manifestanti. Un altro colpo fu trovato conficcato in alto, sul muro di una chiesa. Come scrisse il pm, Placanica sparò “secondo una traiettoria che escludeva Carlo Giuliani”».

L’avvocato ha tecnicamente ragione, le cose, dal punto di vista procedurale, stanno effettivamente così. Ma ha anche ragione Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, quando rivendica, ancora vent’anni dopo, il diritto della famiglia ad avere verità e giustizia. «La più grande ingiustizia che è stata fatta a Carlo – dice – è quella di aver impedito un processo. Il fatto più eclatante dei fatti di Genova, l’omicidio di mio figlio, venne tolto di mezzo da subito, è stato archiviato un omicidio senza nemmeno concedere la possibilità di un processo».

I dubbi della famiglia Giuliani

Un’aula con un collegio, un posto dove c’è scritto che “La legge è uguale per tutti”, e dove la “parte offesa”, la famiglia Giuliani, avrebbe potuto portare controperizie, testimonianze, altre prove. Il proiettile fu davvero deviato da un calcinaccio? Carlo Giuliani costituiva davvero una minaccia? Aveva il volto travisato, in mano aveva un estintore, ma era lontano 6,50 metri dal Defender. A quella distanza avrebbe mai potuto lanciare quell’oggetto pesante con una forza tale da costituire una minaccia per i tre carabinieri chiusi nel mezzo, incastrato e senza una via di fuga? Dubbi che da vent’anni ruotano nella testa di Giuliano e Heidi, i genitori di Carlo, e dei comitati che si battono per avere verità e giustizia su quella morte assurda.

Dubbi, che a un certo punto, è la stessa difesa di Mario Placanica a mettere in campo nell’agosto del 2008. Difensore di Placanica è il professor Carlo Taormina, che presenta una denuncia contro ignoti per l’omicidio di Carlo Giuliani. Il proiettile estratto dal corpo del ragazzo, afferma l’avvocato, non è compatibile con quelli in dotazione ai carabinieri semplici o ai sottufficiali. «Se così fosse – dichiarò all’epoca Taormina – a sparare è stato o un ufficiale, che può utilizzare qualsiasi tipo di proiettile, oppure un civile». Ombre su ombre, opacità totale su una vicenda che è a pieno titolo parte dei grandi misteri italiani.

Vent’anni dopo, Mario Placanica ricorda quei giorni. «Ero carabinieri ausiliario da pochi mesi. Stavo in Sicilia, quando a me e ai miei colleghi fu comunicato che saremmo dovuti andare a Genova. E io a Genova non c’ero mai stato». «Ricordo i comandanti. Urlavano in continuazione. State attenti, qui siamo in guerra, ci lanceranno addosso sacche con sangue infetto da Aids. Urlavano in continuazione per caricarci».

Nessuna inchiesta giudiziaria, nessun Comitato parlamentare d’indagine ha scavato su questa amara verità. A Genova furono mandati allo sbaraglio giovani poliziotti e carabinieri impreparati a gestire situazioni di ordine pubblico (Placanica: «Non avevamo fatto addestramento»), alcuni reparti di polizia e carabinieri non conoscevano la città, non erano in grado di raggiungere i luoghi degli scontri con celerità. Si perdevano per i caruggi. La massima disorganizzazione favorì le violenze indiscriminate.

«C’erano gli scontri – racconta Placanica – io ero stato ferito, il nostro blindato incendiato. Salimmo su un Defender ed eravamo a piazza Alimonda. Poco distante gli scontri, gli spari dei lacrimogeni, il nostro mezzo bloccato. Non capivo cosa stesse succedendo, tutto era confuso, ci lanciavano pietre. Indietro non riuscivamo ad andare. E poi quel ragazzo con l’estintore. Ho sparato in aria due volte, in aria, mai ad altezza d’uomo. Anche il giudice me lo ha riconosciuto. Ho saputo della morte del ragazzo in ospedale. Ero confuso. Al ritorno nella camerata del mio reparto i colleghi mi dicevano bravo killer, benvenuto tra gli assassini. Ma io non volevo sentirli. Ero morto dentro. Ero vivo ma morto. Ho perso gli anni migliori della mia vita».

Tortura psicologica

Passano pochi anni e la vita di Mario Placanica cambia, non è colpevole, dice la legge, ma non basta. Il suo equilibrio vacilla, l’Arma lo congeda. «Mi hanno abbandonato, quando chiamavo i vari colleghi per sentirli, non rispondevano al telefono. Vengo congedato perché trovato stanco. La verità è che mi hanno torturato psicologicamente».

Riposta la divisa, Placanica trova un lavoro da impiegato al catasto. È scrupoloso, ma molti colleghi raccolgono sue confidenze. «Dice di fare sogni strani, si sente perseguitato...». Il suo matrimonio va a rotoli nel peggiore dei modi. La moglie, che ha già una figlia, lo accusa di violenza carnale ai danni della bambina. Viene assolto in primo grado. «Sono stato derubato – racconta – ho perso anche il lavoro sicuro che avevo. La motivazione? Inabilità. Ho speso i soldi (400mila euro, ndr) che il giornale Libero raccolse per me. Spesi in avvocati e divorzio. Ora vivo con una pensione di 500 euro. La solitudine e l’abbandono sono una cosa terribile, ti portano alla morte dentro. Ma io non mi sento un assassino, quel giorno rappresentavo lo stato. I comandanti ci avevano detto che dovevamo difenderci».

Un uomo devastato, vent’anni fa coinvolto in fatti più grandi di lui. Per anni portato in giro come una icona dalla destra. Il simbolo di una polizia che deve potersi difendere, a tutti i costi, e senza grandi fronzoli o impedimenti di legge. Promesse di candidatura. Presenze a convegni e dibattiti. Applausi. E poi la solitudine. Ora Mario Placanica si affida a un libro (“Mario Placanica. Il carabiniere distrutto dall’atto dovuto”), scritto dal carabiniere in congedo Andrea Di Lazzaro, che è anche l’editore. La prefazione è di Carlo Giovanardi, che lo ha presentato nei giorni scorsi in un ristorante romano insieme a Maurizio Gasparri.

Nel libro si raccontano i fatti del G8 e di piazza Alimonda, e poi si passa ai temi cari alla destra: diritto alla difesa, abolizione del reato di tortura e varie. Nella presentazione Giovanardi non ha mancato di attaccare «Ilaria Cucchi e la solita compagnia di giro». Gasparri, invece, ha difeso a spada tratta le scelte del governo Berlusconi durante il G8. Il tempo passa veloce, ma non per loro. Neppure per Mario Placanica, seduto al tavolo dei relatori. A quarant’anni ha lo stesso sguardo perso nel vuoto di vent’anni fa quando era sul Defender in piazza Alimonda. Solo allora e solo oggi.

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