Il curioso caso del nuovo c.t. è inspiegabile solo fuori dall’Italia, il paese che vive nella nostalgia. Succede nel cinema, succede nella politica, nella letteratura, e ci fosse un movimento di fantascienza in Italia sarebbe basato sul passato. Ha la posa, le dichiarazioni, non l’immaginazione. Questo è il vero grande problema suo e della snaturata FIGC che l’ha chiamato. Gravina, Buffon e il circolo degli amici del pallone hanno visto in lui l’uomo-salvatore, il rude, l’ex duro
Se è vero che i cattivi giocatori diventano grandi allenatori – Klopp, Mourinho, Sacchi – è anche vero che non sempre i grandi allenatori sono stati cattivi giocatori – Guardiola, Luis Enrique, Scaloni, Ancelotti. Insomma, basta aver visto Roberto Baggio sbagliare un rigore a un Mondiale per capire che la vita in campo e nei pressi non è facile per nessuno e che ci sono palloni che la ragione non conosce e che la statistica non acchiappa.
E poi c’è il curioso caso di Gennaro Gattuso. Inspiegabile come i Måneskin, forse anche di più. Ma poi è veramente inspiegabile solo fuori dall’Italia, il paese che vive nella nostalgia per i suoi passati. Succede nel cinema, succede nella politica, nella letteratura, e ci fosse un movimento di fantascienza in Italia sarebbe basato sul passato.
Perché l’Italia è un ossimoro, si lamenta del presente non costruendo il futuro, ma rimpiangendo il passato, e infatti Gattuso è un uomo del passato, nonostante non sia ancora nemmeno cinquantenne (basta pensare ad allenatori come De Zerbi e Farioli). Ma tutto in lui dice: sono il passato, e la didascalia di una mano fedele alla realtà aggiungerebbe: nemmeno il migliore.
Gattuso è una statua di Giacometti: ha il pensiero (calcistico) esile, leggerissimo, quasi prossimo alla semplicità di un refolo di vento, il capo rivolto al passato e i piedi inchiavardati alla terra. Un uomo e un allenatore bloccato che, pur girovagando tanto, una specie di Ulisse del pallone, pure quando è tornato alla sua Itaca, il Milan, non l’ha liberata dai Proci, anzi, ha sovvertito Omero provando il 4-3-3, il 4-4-2 e il 3-5-2, ma Penelope non l’ha vista. Perché anche come Ulisse è solo un quasi.
L’ex duro
Ha la posa, le dichiarazioni, ma non l’immaginazione. Questo è il vero grande problema di Gennaro Gattuso e della snaturata FIGC che l’ha chiamato ad allenare la Nazionale italiana. Gravina e Buffon, e a scendere il circolo degli amici del pallone, hanno visto in lui l’uomo-salvatore, il rude-allenatore, l’ex duro-calciatore, più un santo da social che un maestro di calcio.
Un uomo percepito come un sentimento, come se bastassero i sentimenti per far quadrare una squadra e portarla ai Mondiali. Invece, servono i gol e il gioco che porta ai gol e prima i calciatori, in questo caso a guardare le formazioni la nostalgia verrebbe anche a Yuri Gagarin, ma come non c’è più l’URSS, così non fanno più i Maldini, per quanto l’ultimo della specie provi a tenere alto il nome.
Ma pure lui arriva tardi e male e con pochi palloni a giocarsi la continuità calcistica familiare.
L’impressione è che la Nazionale italiana sia una famiglia aristocratica arrivata alla generazione incapace di gestire la storia che si affida al commercialista che capisce poco di borsa, ha fatto fallire tutte le altre famiglie aristocratiche che gli hanno affidato la loro storia, ma è così tanto tranchant da essere fuori dal mondo, così dispari con quei completi neri da gerarca prima che arrivasse Armani o forse è un Armani gerarchizzato, da essere naif, e ogni cosa che dice è così avulsa da sembrare una profezia, e lo sceglie.
Gattuso nel calcio è un incrocio tra Cetto La Qualunque, Chance Giardiniere e Benjamin Malaussène. «Sono terrone, brutto e nero? È vero. Sono scarso? Va bene». «Ho messo il cuore al centro dello spogliatoio e gli ho detto che ci possono palleggiare». «Le cose si dicono pane al pane, vino al vino». Una sorta di Cassano che, però, invece dei podcast in divano, si mette alla prova sulle panchine, uno rimasto vero, troppo vero, che anela imprese che non riesce a portare a termine, una sorta di Messner che non arriva mai in cima e più non raggiunge la cima più viene invitato a provare, sempre con mezzi e uomini maggiori, eppure le spedizioni non portano a nulla.
Quando è finito all’Hajduk Spalato, tutti dietro le panchine e i microfoni hanno pensato che da lì poteva ripartire, dopo essersi provato senza esiti all’Olympique Marsiglia e al Valencia e prima ancora c’erano state Napoli e Milan, dove pure era stato visto, letto e sottoscritto come soluzione forte, uomo d’ordine, disciplina e rigore e invece aveva portato se non la peste il caos.
Parola d’ordine: veleno
La sua parola d’ordine è veleno, forse sogna giocatori serpenti, che strisciando non sono il massimo in uno sport dove si corre sempre di più, ma lui legge veleno per volontà, ostinazione e rabbia, è la declinazione fatta in casa per il ringhio che tanto piace e che si porta dietro da quando rubava palloni e li passava a quelli con i piedi buoni. Rino-Ringhio invoca veleno senza riuscire ad ottenerlo, tanto da fare tenerezza, perché Gattuso come cantava Rino Gaetano – calabrese di stirpe dolce – parte incendiario e fiero e quando arriva è pompiere.
Però piace. Più fracassa più piace. C’è una comicità nei suoi deragliamenti sportivi. Tanto era efficace, utile, compattante come calciatore tanto è inservibile come allenatore, e questa inservibilità è stata vista da Buffon e Gravina come risolvibilità: «La migliore scelta possibile».
Nel passato Rino era la protesi della tigna di Marcello Lippi nell’Italia del 2006 che vince il Mondiale, dimenticando che c’erano anche De Rossi, Camoranesi e Pirlo a raddrizzare e indirizzare, senza scomodare Totti e Del Piero, un momento eccezionale e irripetibile: invece di chiamare un allenatore-maestro, si chiama un quasi-allenatore, un quasi-Ulisse, un quasi, che ha un presente disastroso, e anche un passato recente di deragliamenti in panchina, ma di quella estate mondiale fu il cuore e quindi facendo tornare il cuore torneranno la voglia, il gioco e i gol.
Una visione bambina, che nemmeno il più ottimista degli Stephen King potrebbe raddrizzare in un romanzo credibile. In questa illusione c’è una continuità non solo nella FIGC o nei governi italiani, ma col paese: pensare di tornare ad essere quelli del boom economico con l’ottimismo e non con la piccola impresa e gli italiani pieni di idee e operosità, pensare di far rinascere il cinema facendo remake di Fellini o imitazioni di Monicelli, non funziona così.
Quelle vittorie, quelle uscite dalla storia sono frutto di una quantità di fattori che solo ad elencarne la metà Buffon, Gravina e Gattuso andrebbero al manicomio, che poi è sempre meglio di andare ad allenare l’Italia, citofonare Ranieri, sor/ser Claudio.
Per questo Gattuso accetta, perché non ha nulla da perdere. Diventa Gennaro Bond Gattuso perché Sean Connery e Roger Moore si sono assentati e Daniel Craig vuole essere anche Burroughs in Messico, come Ancelotti in Brasile.
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