In Italia e nel mondo negli ultimi dieci anni tra i giovani è scoppiata un’epidemia di disturbi mentali. I casi di depressione, di disturbi d’ansia, di disturbi del comportamento alimentare, di disturbi bipolari, di autolesionismo e i tentativi di suicidio tra gli adolescenti sono aumentati vertiginosamente. Dopo la pandemia di Covid-19, poi, il numero dei giovani affetti da depressione o disturbi d’ansia è quintuplicato, quello dei giovani affetti da disturbi del comportamento alimentare è aumentato del 30 per cento. Qual è la causa?

A sentire quello che raccontano i giornali o i reportage televisivi, non ci sono dubbi: è colpa dei social e dei telefonini. Lo ha ribadito persino il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che ha affermato: «I ragazzi stanno sempre sui cellulari, non si parlano più, non socializzano, la pandemia ha accentuato questo disagio». Insomma, i giovani stanno sempre sui social, si isolano, e così diventano depressi, e alla peggio si suicidano. Peccato che non sia vero nulla.

La capofila di questa linea di pensiero in base alla quale gli smartphones sono pericolosi per il benessere psichico dei nostri ragazzi è Jean Twenge. Jean Twenge è una professoressa di psicologia dell’Università di San Diego, negli Usa. Ha scritto un libro molto in voga negli Usa, intitolato: “iGen”, dove i sta per iperconnessi, il cui sottotitolo recita: «Perché i giovani iper-connessi di oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e completamente impreparati per l’età adulta, e cosa significa questo per tutti noi». A dire la verità, Twenge è un personaggio molto controverso. I suoi detrattori più accaniti sostengono che passa più tempo in televisione che a fare ricerca seria. Non ha mai prodotto ricerche di rilievo, e la maggior parte degli esperti trova grandi difetti negli studi che lei – e il suo collaboratore Jonathan Haidt -compiono.

La tesi

In un suo famoso articolo pubblicato sulla rivista The Atlantic, Twenge si chiede: «I cellulari hanno distrutto una generazione?» La risposta è: ovviamente sì. Lei sostiene che i nati dopo il 1995 sono sull’orlo di una crisi di salute mentale, e che ciò è dovuto a tutto il tempo che essi passano col naso appiccicato allo schermo di un telefonino. In un suo articolo pubblicato su Emotion, una rivista scientifica della American Psychological Association, intitolato icasticamente La diminuzione del benessere psicologico tra gli adolescenti americani dopo il 2012 è legato al tempo passato davanti a uno schermo durante la diffusione della tecnologia degli smartphone, fornisce la spiegazione alle sue tesi.

Questo suo studio si basa su un vasto rapporto stilato dall’associazione Monitoring The Future, cioè “Monitorando il futuro”, a cui partecipano l’università del Michigan, l’Istituto nazionale della Salute e l’Istituto nazionale sull’Abuso di Droga statunitensi: ogni anno circa 50mila studenti delle scuole medie e superiori vengono intervistati per valutare i loro comportamenti, le loro attitudini e i loro valori.

Esaminando questi dati, Twenge ha trovato che circa il 13 per cento degli studenti di terza media e seconda liceo che passano da 1 a 2 ore a settimana sui social «non sono felici»; tra quelli che passano da 10 a 19 ore a settimana sui social i «non felici» sono il 18 per cento; tra coloro che passano 40 o più ore a settimana sui social i «non felici» salgono al 24 per cento.

Cosa non torna

Quindi, la correlazione è chiara: più tempo passi sui social e più sei infelice. Però, Twenge si dimentica di dire che tra gli studenti di quarta liceo questa correlazione svanisce, dato che la loro infelicità non aumenta col numero delle ore passate sui social. E come mai 8 giovani su 10 che soffrono di depressione sono di sesso femminile? Gli smartphone hanno effetto solo sulle ragazze? Se la teoria reggesse, poi, un adolescente che passa zero ore a settimana sui social dovrebbe essere felicissimo e per niente depresso: invece, lo stesso rapporto dimostra che gli adolescenti che passano zero ore davanti a un telefonino sono più infelici dei loro pari che ci restano attaccati ore e ore a settimana.

Allora, come la mettiamo? Twenge è stata molte volte criticata, e accusata di iper-semplificare i dati: «Li aggiusta come piace a lei» sostiene Katherine Keyes, della Columbia University. «Twenge usa questi dati per fargli dire cose per cui non erano stati pensati» sostiene Amanda Lenhart, una antropologa esperta del settore. Twenge ammette che il rapporto non può provare se il tempo passato sui social riesce a modificare direttamente la salute mentale dei giovani, e che il suo studio mostra solo che c’è una correlazione tra tempo passato davanti a uno schermo e benessere psicologico.

Ma, come dicono gli scienziati anglosassoni, “correlation is not causation”, ovvero trovare una correlazione tra due fenomeni non significa che uno sia causa dell’altro. Per Twenge, i cellulari causano il malessere psichico dei giovani, ma quasi tutti gli scienziati e molti studi scientifici mostrano che questo nesso di causalità andrebbe rovesciato: se io sono un adolescente infelice allora mi attacco allo schermo del telefonino proprio per fuggire dalle cose della mia vita che mi rendono infelice - come una famiglia disfunzionale con genitori che non ti parlano e non ti considerano, o compagni di scuola che ti bullizzano - e non viceversa.

Twenge fa notare che la felicità e il benessere psicologico degli adolescenti hanno cominciato a calare in maniera più accentuata a partire dagli anni 2012-2015. «La questione non è quale sia la causa dell’infelicità degli adolescenti» dice Twenge. «Quello che mi domando è cosa sia cambiato in quel periodo di tre anni che potrebbe aver provocato questo crollo verticale nella felicità e nella soddisfazione verso la vita degli adolescenti». 

Uno strumento neutro

Già, cosa è cambiato? Una cosa è certa: i cellulari sono strumenti neutri, che non sono né buoni né cattivi di per sé ma dipende dall’uso che uno ne fa, e sui social uno trova quello che sta cercando. Se un giovane è solo e depresso allora va sui social per trovare compagnia e consolazione. «Molti gruppi marginalizzati, come gli studenti gay e lesbiche, trovano supporto navigando sui social» sostiene Melinda Gates. «Molti giovani che soffrono di un disturbo psichico e si sentono soli e non ascoltati dai genitori vanno sui social per trovare altri giovani come loro con cui confrontarsi e confidarsi» dice lo psichiatra Sergio De Filippis, che dirige Villa Von Siebenthal, una comunità per la cura dei disturbi psichici dell’età giovanile di Genzano, alle porte di Roma. «Molto spesso capiscono di non essere soli e decidono di rivolgersi a noi psichiatri, anche contro il volere dei genitori».

Altri studi scientifici hanno dimostrato che i like ottenuti sui social attivano i centri del piacere e della ricompensa del cervello e quindi fanno sentire i giovani meno isolati e più felici. Altri studi dimostrano che i social non sono intrinsecamente dannosi ma possono migliorare le abilità sociali e aiutare i giovani a sviluppare una migliore resilienza psicologica.

Forse, se esaminasse meglio i dati Twenge potrebbe trovare cose interessanti. Per esempio, nell’ultimo decennio tra gli adolescenti è crollato il consumo di droghe e di alcol; i loro voti a scuola sono cresciuti; è aumentata l’età alla quale consumano il primo rapporto sessuale; è diminuito l’interesse verso riti di passaggio che segnano il distacco dalla famiglia e l’entrata nella vita adulta, per esempio sempre meno giovani prendono la patente e vanno a vivere da soli o con loro pari.

L’errore più grossolano che commettono Twenge e quelli che la pensano come lei è che dimenticano l’effetto dei fattori economici sulla salute mentale dei giovani. Eppure, Twenge aveva i dati che indicavano il loro ruolo. Lei sostiene: «I giovani della iGen sono perfetti per i manager: sono una generazione di ragazzi cauti, di grossi lavoratori che vogliono costruirsi una carriera in un ambiente stabile. Tuttavia, hanno bisogno di più guida e di più rassicurazioni rispetto ai millennials. La Generazione iperconnessa è meno indipendente – escono di meno senza i loro genitori, non prendono la macchina per uscire. Perciò hanno bisogno di istruzioni precise per compiere un lavoro e di più incoraggiamento per fare le cose da soli. E hanno minore probabilità di aspettarsi una paga superiore per meno lavoro».

Ma Twenge avrebbe potuto rovesciare la frase così: «I giovani della iGen hanno maggiore probabilità di aspettarsi una paga inferiore per più lavoro». Ohibò: e se l’ansia per un futuro in cui temono che saranno sfruttati e poveri fosse la causa del malessere di questi giovani? No, meglio pensare che è tutta colpa dei social, il capro espiatorio più facile.

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