Un uomo nigeriano di 35 anni è morto tra l’1 e il 2 maggio all’interno del cpr di Brindisi, in circostanze ancora da chiarire. La notizia del decesso, avvenuto poche ore prima della visita del deputato del partito Democratico Claudio Stefanazzi, non è stata comunicata neppure al parlamentare, che è stato accolto “in un clima sereno” dagli operatori che poche ore prima avevano gestito la morte di una delle persone trattenute. Nessuna nota ufficiale è stata diffusa, ma le prime voci hanno iniziato a circolare rapidamente, spingendo gli attivisti dell’assemblea No Cpr Puglia a organizzare un presidio la sera del 3 maggio davanti alla struttura.

Comunicare con le persone trattenute è possibile solo gridando da una parte all’altra del muro di cinta. Vedere, invece, non è concesso. «Quando siamo arrivati sentivamo le persone lamentarsi da dentro. Uno diceva di avere le mani rotte, un altro soffre d’asma e ha un’ernia», racconta un attivista presente. Non è la prima volta che la rete No Cpr si raduna fuori dalla struttura di Restinco, ma questa volta la priorità era chiara: far sentire ai reclusi che, fuori, qualcuno li ascolta. «È accaduto un fatto gravissimo. Volevamo che sapessero di non essere soli, completamente isolati. E anche cercare di capire in che condizioni di salute si trovano», aggiunge.

Poco dopo l’inizio del presidio, una camionetta della polizia si è posizionata all’ingresso del centro, sono arrivati molti poliziotti, sia in divisa che in borghese.

Secondo le testimonianze raccolte dagli attivisti, l’uomo sarebbe morto fra le convulsioni e con la schiuma alla bocca: un dettaglio che, dicono, potrebbe indicare un’overdose da farmaci, facendo ipotizzare l’ennesimo caso di contenimento farmacologico. «È una pratica diffusissima, tanto nelle carceri quanto nei cpr. Un po’ come il bromuro nelle caserme di leva: i farmaci vengono somministrati non per curare, ma per sedare. È una ‘pratica’ che, per negligenza, leggerezza o un errore di dosaggio, può facilmente sfuggire di mano e avere conseguenze gravi. Tra i farmaci mescolati al cibo e quelli somministrati come terapia, può capitare di sentirsi male. In passato, alcuni sono stati portati d’urgenza in ospedale dopo un malore».

Gli attivisti: abbiamo chiamato un’ambulanza ma non è stata fatta entrare

Dopo aver comunicato con i reclusi che lamentavano dolori e condizioni di salute gravi gli attivisti di No Cpr hanno chiamato un’ambulanza, due volte. «L'ultima l’ho chiamata io personalmente», racconta uno di loro. «Ho fornito le mie generalità, il mio numero, tutto. L’ambulanza è arrivata due volte, sempre la stessa. La prima volta, dopo molte insistenze: abbiamo dovuto chiamare cinque, sei, sette volte prima che ci dicessero “Va bene, vi mandiamo un mezzo”». Ma anche quando è arrivata, non è stato possibile farla intervenire. «La prima volta i cancelli sono stati aperti, ma il medico della struttura ha rifiutato l’intervento, dicendo che non ce n’era bisogno. La seconda volta non è nemmeno potuta entrare». Solo dopo ulteriori pressioni, e grazie all’intervento di un’avvocata contattata dagli attivisti, è stato possibile ottenere una minima apertura da parte della direttrice del Cpr, che ha promesso che lunedì mattina una delle persone che sta male verrà portata a fare una visita medica esterna.

«È assurdo», commentano. «Deve morire qualcuno perché venga ascoltato chi denuncia una situazione di sofferenza. E anche la morte, da sola, non basta. Ci sono volute venti persone fuori dai cancelli a fare rumore per ore, a pretendere ascolto».

Il cpr di Restinco non è segnalato nei siti istituzionali
 

A differenza di altri Cpr, come quelli di Bari-Palese, Trapani-Milo o Palazzo San Gervasio, il Cpr di Brindisi Restinco non compare chiaramente nelle mappe ufficiali. Non è segnalato da Google Maps, non è menzionato nei siti istituzionali. Anche una semplice ricerca online restituisce pochi risultati, e solo scavando nella seconda o terza pagina si può trovare qualche riferimento ufficiale, spesso vago, alla “struttura già nota come Cara (Centro di Accoglienza per richiedenti Asilo)”.

Per chi da anni segue da vicino questi luoghi di detenzione e orrore è un dettaglio per nulla marginale, che nasconde anzi un’intenzione politica. «Per noi questa è una forma di rimozione sistematica dallo sguardo pubblico», spiegano gli attivisti. «Non si tratta solo di isolamento fisico o logistico: è una cancellazione della presenza stessa del cpr dalla percezione cittadina, anche nella sua proiezione digitale. È come se questi spazi fossero sottratti allo sguardo sia concretamente che simbolicamente». Un fatto che ha conseguenze rilevanti e, come in questo caso, gravi: non sapere dove si trovano questi luoghi, chi vi è recluso, come viene trattato, in che condizioni di salute si trova e quali violenze quotidiane subisce o addirittura quali sono le cause della sua morte - significa non poter esigere il rispetto dei diritti di una popolazione che, per definizione, non avendo i documenti in regola, è politicamente fragile se non insignificante.


La terza morte in tre mesi
 

Quella dell’uomo nigeriano è la terza morte nel giro di tre mesi sotto le mani della stessa azienda appaltatrice: il consorzio composto dal gruppo Agh Resort Ltd e Hera Società Cooperativa Sociale. Perché, ricordiamo, i Cpr sono gestiti da aziende, spesso vere e proprie multinazionali della detenzione, che vincono gare d’appalto proponendo importanti ribassi sui costi di servizio con il rischio, praticamente garantito, di gravi violazioni dei diritti fondamentali dei trattenuti.

In particolare, i trasferimenti verso i cpr di Bari, Brindisi e Palazzo San Gervasio sono considerati da chi li subisce e da chi li monitora dei trasferimenti punitivi. Le strutture sono fatiscenti, le infrastrutture vecchie e malfunzionanti, l’accesso a cure mediche, informazioni legali e beni di prima necessità è ancora più limitato. «A Bari fino a poco tempo fa le persone vivevano in prefabbricati roventi, gli stessi installati in fretta e furia quando, vent’anni fa, fu aperto il primo cpt in emergenza», continua l’attivista di No Cpr - Puglia. Rispetto a centri come quello di Ponte Galeria a Roma o al vecchio Cpr di Torino in corso Brunelleschi, quelli pugliesi sono considerati strutture di maggiore isolamento e degrado, e quindi strumenti di pressione ulteriore sui reclusi.

Le violazioni sono molte e di varia natura. Un esempio: nel cpr di Brindisi non esiste un telefono della struttura a disposizione delle persone recluse. Chi vuole comunicare con l’esterno deve contare sul proprio telefono personale, a patto che non sia uno smartphone, perché quelli vengono sistematicamente confiscati perché dotati di fotocamera. Chi non ha un cellulare idoneo deve farselo spedire da amici o familiari. In alcuni casi, raccontano gli attivisti, sarebbero state le stesse guardie a vendere telefoni ai reclusi, sovraprezzati.

I Cpr sono luoghi marginali di violazione dei diritti, opacità e soprusi. Ancora più ermetici del carcere - istituzione a sua volta fuorilegge -. In questi luoghi si può morire, nel silenzio e nell’umiliazione, senza che la propria morte valga almeno un comunicato ufficiale.

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