Il politico annuncia un’interrogazione parlamentare: «Credo che questo cortocircuito dell’informazione sia peculiare del Cpr di Brindisi e di quello di Bari, città dai cui porti partono i trasferimenti verso l’Albania. I ragazzi detenuti in questi cpr vengono spostati senza alcun preavviso, e solo una volta arrivati scoprono dove sono. Da lì dovrebbero contattare i loro legali che si trovano in Puglia: è indegno»
Quando si omette una morte, le ipotesi sono due: o c’è qualcosa da nascondere, oppure si ritiene che quella vita non conti. È difficile stabilire quale delle due motivazioni abbia prevalso nel caso del cpr di Brindisi Restinco, dove il 2 maggio il deputato del Partito Democratico Claudio Stefanazzi, in visita alla struttura, non è stato informato del decesso di un uomo nigeriano di 35 anni avvenuto la notte precedente.
«Sono stato dentro un’ora e mezza, ho incontrato gli ospiti e anche gli operatori sanitari – racconta Stefanazzi – e nessuno si è degnato di dirmi che poche ore prima era morto un ragazzo. L’ho scoperto solo nel pomeriggio, quando la voce ha cominciato a circolare. È una cosa che mi ha amareggiato profondamente».
Per il parlamentare si tratta di un grave segnale di opacità: «C’è un embargo delle informazioni, pressioni sugli operatori perché non escano notizie che potrebbero causare problemi. È scandaloso che, a distanza di più di 24 ore, non ci sia ancora un comunicato ufficiale che chiarisca cosa è successo». Secondo quanto appreso informalmente, l’uomo sarebbe morto per un infarto. Ma, aggiunge Stefanazzi, «non so se avesse patologie pregresse, se è stato soccorso, se c’era un defibrillatore. L’ambulanza sarebbe arrivata intorno alle sette del mattino, ma il ragazzo era già morto. Tutto questo mi è stato detto solo in modo informale».
Il quadro che emerge è preoccupante ed è probabile che risponda a una precisa intenzione politica: «Credo che questo cortocircuito dell’informazione sia peculiare del Cpr di Brindisi e di quello di Bari, città dai cui porti partono i trasferimenti verso l’Albania. I ragazzi detenuti in questi cpr vengono spostati senza alcun preavviso, e solo una volta arrivati scoprono dove sono. Da lì dovrebbero contattare i loro legali che si trovano in Puglia: è indegno. Sembra che l’obiettivo sia evitare che si alzi l’attenzione dell’opinione pubblica. Cosa c’è da nascondere?».
Durante la visita, Stefanazzi ha contato circa 16 persone detenute in un solo blocco, uno dei quattro presenti nella struttura. «Entrare in un blocco è come entrare in un carcere – dice –. Il cortile è chiuso da un tetto di plexiglas. Alle undici del mattino dormivano tutti: sedati dagli psicofarmaci». Psicofarmaci che vengono assunti dal 50 per cento delle persone detenute. «Mi ferisce pensare che la mia visita si sia svolta in un clima apparentemente sereno, senza che mi venissero riferite emergenze. Eppure avevano gestito, poche ore prima, la morte di un ragazzo. Questo fa paura. Se riescono ad accogliere un deputato senza accennare a una morte, è difficile fidarsi di quello che accade in questi centri”.
Ma non è tutto. Stefanazzi sottolinea anche un aspetto poco noto della gestione dei cpr: «Le persone in ingresso al centro arrivano con una valutazione medica sul loro stato psichico, che dovrebbe accertare la loro idoneità a vivere in una comunità ristretta. Eppure, la dirigente chiede spesso di ripetere questa perizia psicologica, perché è evidente che molti dei ragazzi che arrivano si trovano in condizioni psichiche molto gravi, incompatibili con la detenzione». La diagnosi che stabilisce l’idoneità diventa quindi un atto puramente burocratico, e nulla ha a che vedere con la cura che una figura medica dovrebbe garantire ed esigere. Gli attivisti di Nocpr Puglia denunciano casi di autolesionismo, tentativi di suicidio e, appunto, abuso di psicofarmaci.
Ma per un occhio esterno è difficile capire cosa accade davvero nei centri per il rimpatrio: «Ho dovuto insistere molto per entrare con un mediatore culturale di mia fiducia, e non affidarmi a quelli interni. Nonostante questo, è evidente che le persone lì dentro – detenuti e operatori – vivono in uno stato di soggezione e di forte pressione psicologica, per cui è difficile avere farsi un’idea reale».
A commentare la vicenda interviene anche Luigi Manconi, sociologo e presidente dell’associazione A Buon Diritto: «Emergono due questioni fondamentali. La prima riguarda le condizioni di vita e di salute nei cpr: il dato secondo cui il 50 per cento delle persone lì recluse fa uso di psicofarmaci è allarmante, oltre che potenzialmente illegale. Le prescrizioni dovrebbero essere valutate caso per caso, e non possono diventare uno strumento di disciplinamento o di controllo». La seconda, continua Manconi, è la questione della vigilanza: «Il fatto che a un deputato sia stata nascosta la notizia di una morte è gravissimo, ma purtroppo si inserisce in una linea politica costante, che tende a ostacolare l’accesso anche a figure che la legge autorizza a visitare i centri, come parlamentari nazionali e regionali. Questo è un problema democratico di fondo».
Alla luce di quanto avvenuto, Stefanazzi ha annunciato che presenterà un’interrogazione parlamentare lunedì 5 maggio per chiedere conto di questa morte. Ma una morte taciuta in un luogo di detenzione amministrativa interroga non solo la politica, ma l’idea stessa di giustizia in un una democrazia.
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