Il lavoro agile (o da remoto, o ibrido, o smart) è ormai divenuto una delle ordinarie modalità di lavoro. E non solo a livello normativo, cioè dopo essere stato regolamentato per legge, ma anche nella cultura delle persone, entrando a far parte stabilmente nelle relazioni aziendali. Del resto, lo smart working è solo la codificazione del lavoro che, prima del riconoscimento legislativo, veniva svolto in luoghi diversi dalle sedi “ufficiali”: dalle case alle sale di attesa di stazioni o aeroporti, prima di partire per poi continuare a lavorare su treni o aerei; oppure magari in macchina aspettando l’uscita dei propri figli da scuole o palestre. Insomma, smart working come “work from everywhere”, cioè lavoro da posti diversi a seconda della necessità.

I lavoratori non vogliono più rinunciare al lavoro da remoto. E molte sono le aziende che hanno colto anche l’opportunità di risparmio legato a tale cambiamento. Questo è il motivo per cui, dopo l’accelerazione determinata dalla normativa emergenziale all’epoca della pandemia, che ha imposto in molti settori il passaggio a questa modalità operativa, essa è stata mantenuta stabilmente in diversi ambiti lavorativi come full smart working o smart working ibrido, cioè un regime misto tra presenza in ufficio e remote working.

Il superamento della “economia del tramezzino”

Il lavoro da remoto ha comportato profondi cambiamenti non solo all’interno di fabbriche e uffici, definendo un nuovo modo di affrontare la propria attività professionale, ma anche nel contesto esterno, determinando impatti sulle attività ristorative. Come spiegato dal dossier di Confesercenti del 2022, intitolato Cambia il lavoro, cambiano le città, relativo agli effetti dello smart working su imprese, famiglie e società, lavorare da casa ha modificato le abitudini di consumo, determinando una contrazione della spesa negli esercizi delle zone circostanti gli uffici.

Queste modifiche, tra le altre cose, avevano indotto l’ex ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, a decidere di chiudere l’esperienza dello smart working per i dipendenti pubblici al fine di risollevare il settore della ristorazione, danneggiato dalla pandemia, facendo ripartire il business delle pause pranzo, e quindi i consumi nei locali pubblici. Secondo il ministro, l’attività in presenza avrebbe rilanciato il Pil, determinando un rilevante impatto sull’economia grazie al ritorno alla vendita di panini e insalate. La valutazione relativa al lavoro da remoto e ai suoi effetti, al fine di deciderne la prosecuzione o la fine, avrebbe dovuto essere frutto di una verifica sulla produttività dei lavoratori, anziché sulla vendita dei tramezzini nei bar. Ma soprattutto Brunetta non aveva considerato che l’evoluzione della realtà è più veloce della pianificazione di qualunque ministro. Perché il contesto progredisce velocemente e si adegua alle nuove circostanze.

Smart working e pausa pranzo

I lavoratori hanno compreso che il lavoro da remoto non si riduce sempre e solo al “lavorare da casa”. E gli esercizi di ristorazione, che in passato avevano seguito l’evoluzione del tessuto produttivo, adattandosi a esso sia nella ubicazione che nella organizzazione del servizio reso, stanno ora provando a conformarsi pure all’innovazione determinata dallo smart working.

I gestori di bar e bistrot, in particolare, iniziano a comprendere che i propri locali sono spazi utili per chi vuole “staccare” dall’ambiente casalingo e cambiare aria almeno per qualche ora. Perciò, soprattutto nei centri delle città, alcuni di essi destinano tavolini, disponibili in determinate fasce orarie, a chi vuole lavorare al computer. Esistono app mediante cui si può accedere virtualmente al locale e verificare gli spazi disponibili per una prenotazione. Sarebbe necessario che certe soluzioni si estendessero anche a quartieri periferici e centri urbani di minori dimensioni.

Del resto, se il lavoro non è più ancorato alla retorica del rigido rispetto dell’orario - che non è affatto sinonimo di efficacia e efficienza, come fino a qualche tempo fa si pensava - ma viene soprattutto orientato al raggiungimento di obiettivi e al miglioramento di performance, è coerente che il contesto intorno al lavoratore si organizzi in modo da agevolare lo svolgimento di tale nuova modalità operativa.

Come la pandemia ha cambiato la pausa pranzo

Il periodo pandemico ha cambiato anche il modo di affrontare la pausa pranzo, e soprattutto cosa e come si mangia, anche quando si lavora dall’ufficio. Tale periodo sembra aver portato le persone a focalizzare la propria attenzione su aspetti prima forse un po’ trascurati. Tra questi, il proprio benessere psico-fisico. Da un’indagine di Nomisma del 2022 emerge che, nella pausa pranzo, i lavoratori “in presenza” mostrano maggiore attenzione all’ambiente, in particolare nella ricerca di confezioni con materiali riciclati e con un minore utilizzo della plastica, e chiedono specifiche informazioni relative all’impatto ambientale delle singole portate. Una buona parte di dipendenti, inoltre, vorrebbe un’offerta di cibi in grado di soddisfare i diversi stili alimentari e altri esprimono preferenze per pietanze realizzate con ingredienti locali e materie prime di qualità. Bar e ristoranti non possono che adeguarsi alle nuove esigenze.

Insomma, la pandemia ha portato a valorizzare lo smart working come strumento idoneo a ridurre il traffico e l’inquinamento cittadino e, al contempo, a conciliare meglio vita e attività professionale. E lo smart working, a propria volta, ha operato cambiamenti nel contesto in cui il lavoratore si muove e negli elementi essenziali della sua giornata. La pausa pranzo poteva non essere interessata da quest’evoluzione non solo lavorativa e sociale, ma anche personale?

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