«Ora mi stai rompendo proprio i coglioni, ora acchiano (veniamo, ndr) a casa tua che so dove stai e ti vengo a rompere le corna a te e tuo padre», dice Francesco Caccamo, indagato per usura, alla sua vittima, un imprenditore catanese. «Merda che sei perché non rispondi», gli dice in un altro messaggio.

Si tratta di un caso tra centinaia, ma che racconta come, con la pandemia, gli strozzini siano riemersi con le loro offerte di protezione, supporto, e sostegno economico, approfittando di in un periodo in cui il lockdown ha rappresentato il colpo finale per molte attività imprenditoriali.

«È molto difficile da un punto di vista investigativo, ricostruire con certezza il debito e il tasso applicato alle vittime soprattutto nei casi di debiti accumulati nel tempo. A questo bisogna aggiungere la diffusa omertà tra chi subisce l’usura. Il Covid ha, pesantemente, aggravato la situazione di molti imprenditori», dice un investigatore che chiede l'anonimato.

Una storia di usura a Catania

Caccamo è stato arrestato a metà novembre, ma quello che emerge dall'inchiesta del Gico della Guardia di Finanza di Catania, è il sistema usuraio in grado di prestare soldi, rapidamente, a imprenditori già in difficoltà economica e noti alla rete della malavita. È il primo stadio dell'intervento criminale nel mondo economico, il secondo è rappresentato dall'acquisizione di proprietà e attività commerciali.

L'usura è uno dei reati più odiosi da subire perché svuota l'imprenditore lentamente. La vittima di Caccamo ha subito vessazioni, minacce velate, ma anche il finto atteggiamento bonario da parte del carnefice. Ma quello che racconta la storia di questa vittima è anche altro. Le richieste usuraie di Caccamo, al quale l'imprenditore si era rivolto già nel 2015, arrivano dopo che erano stati arrestati altri due usurai, tra settembre e ottobre di quest'anno.

In pratica l'imprenditore viene sballottato tra strozzini, ne arrestano uno e ne ricompare un altro, finito in galera quest'altro arriva il terzo. Le vittime sono prede di un ingranaggio criminale che sfianca il malcapitato prima di prosciugarlo economicamente e mentalmente. La vittima ha venduto anche una casa per far fronte ai debiti, ha chiuso la sua attività commerciale e, con l'emergenza pandemica, si è ritrovato inseguito dai suoi debiti. I tassi hanno superato il 100 per cento. L'imprenditore ha ricevuto 8mila euro e ne ha restituiti allo strozzino 25mila, comprensivi di capitale e interessi.

«La regolazione del prestito contemplava la corresponsione di rate mensili cui si aggiungeva una "maxirata” finale pari all'importo richiesto a titolo di capitale con l'aggiunta di un ulteriore decimo», scrive il giudice Pietro Currò nell'ordinanza di arresto di Caccamo. In pratica si resta soggiogati fino a quando non si restituisce il capitale ricevuto inizialmente, così gli imprenditori vengono sottomessi per anni.

Prima di Caccamo, a settembre, viene arrestato, per usura e mafia Nunzio Comis. I rapporti e le relazioni con la criminalità organizzata sono utili agli strozzini per minacciare la vittima relegandola in una condizione di paura e sottomissione. Comis si presentava come il figlio di Giovanni, boss in carcere, del clan catanese Santapaola Ercolano. Nella sua casa, le forze dell’ordine hanno trovato circa 13mila euro in contanti, assegni, foglietti manoscritti. Stesso arsenale da usuraio trovato in casa anche di Caccamo: carte prepagate, soldi contanti, assegni, ma anche un libro con appunti scritti a mano.

Usuraio con reddito

Comis, per lo stato, era un finto povero, destinatario di reddito di cittadinanza come tanti usurai anche condannati, visto che la legge non prevede esclusione per i soggetti coinvolti in queste inchieste. Tra l'arresto di Comis e Caccamo c'è anche un terzo arrestato, Giuseppe Luigi Celi. Anche lui pretendeva la restituzione dell'intero capitale oltre al pagamento mensile degli interessi.

«Tengo a precisare che a seguito delle dichiarazioni da me rese, qualora le stesse possano venire a conoscenza dei soggetti usurai da me indicati, considerato lo spessore criminale, ho da che temere riguardo la mia incolumità e quella dei miei familiari», dice l'imprenditore vittima quando viene ascoltato dagli inquirenti. A casa di Celi c'è un altro arsenale che non prevede armi, ma un libro mastro degli “strozzati.” In un'agenda di colore marrone si a proposito di un prestito da 500 euro che andava restituito «70 euro settimana per 14». Per un totale di 980 euro. Quando qualcuno non restituiva, Celi si faceva aiutare nelal riscossione dalla cosiddetta “famiglia mafiosa di Monte Po'”.

La rete è saltata grazie ad un controllo casuale dei finanzieri che nel giro di neanche due mesi hanno arrestato i tre usurari. Ma gli usurai sono riemersii ovunque con la crisi legata all'emergenza pandemica. Lo scrive la procura nazionale antimafia, guidata dal magistrato Federico Cafiero De Raho, nell'ultima relazione annuale. « I rischi di usura sono accresciuti proprio a seguito dell’indebolimento economico di famiglie e imprese, facilitando l’acquisizione, diretta o indiretta, delle aziende da parte delle organizzazioni criminali», si legge nella relazione, pubblicata pochi giorni fa, relativa alle attività svolte fino al dicembre 2019, ma che analizza anche quanto emerge dalle segnalazioni recenti in arrivo dalle distrettuali antimafia in tutta Italia.

Dall'usura all'impresa mafiosa

La relazione dedica, infatti, un paragrafo alla prevenzione dei fenomeni di criminalità finanziaria connessi con l’emergenza da Covid-19. E quello dell'usura è il reato origine, spia dell'intervento massiccio della criminalità mafiosa nell'economia, ancor di più in questo periodo emergenziale.

L'obiettivo criminale è quello di prendersi le aziende per due ragioni, la prima è riciclare denaro sporco, la seconda è finalizzata a ottenere consenso entrando nel circuito legale che si relaziona con la pubblica amministrazione. «La penetrante presenza delle mafie nel tessuto economico imprenditoriale e negli affidamenti pubblici incrementa il consenso sociale, in particolare nelle aree più povere del paese», si legge nella relazione.

Il documento denuncia che le misure governative messe in campo potrebbero rivelarsi un ombrello, a tratti, bucato. «L’imponente intervento che il governo ha messo in campo per assicurare supporto finanziario alle aziende potrebbe risultare non sufficiente, e comunque non riguarderà quelle realtà imprenditoriali prive dei previsti requisiti di ammissibilità».

In questo quadro, le mafie sembrano, apparentemente, immobili, ma è una strategia. «In una prospettiva di medio lungo termine indirizzeranno quantità ingenti di denaro di provenienza illecita verso nuove opportunità derivanti dalla post-epidemia, quali quelle offerte dal settore sanitario, dalle forniture medicali, ma anche quelle offerte dai più tradizionali settori dell’edilizia, del turismo, della grande distribuzione, del comparto scolastico», si legge nella relazione.

Dall'inizio della pandemia, emerge dal documento della procura nazionale antimafia, grazie alla collaborazione con l'Uif, l'ufficio di informazione finanziaria di Banca d'Italia, sono state segnalate decine di operazioni sospette dal sud al nord che si sono trasformate in attività d'impulso alle direzioni distrettuali antimafia territoriali.

Le operazioni sospette vanno dall'interesse della 'ndrangheta per residenze per anziani di Torino, all’amministratore di società legato ai Casamonica impegnato nella commercializzazione di mascherine a Roma. Arrivano fino a Venezia dove «un imprenditore, attivo in vari settori commerciali, movimentava ingenti quantitativi di denaro», in rapporti con personaggi legati a potenti 'ndrine calabresi.

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