La comunicazione istituzionale della gestione della pandemia è stata analizzata da esperti di scienze diverse. Mentre si va verso la proroga dello stato d’emergenza, può essere utile valutarla anche sul piano del diritto, per verificare come il diritto sia stato comunicato in questi mesi.

Comunicazione paternalistica

La comunicazione istituzionale è stata talora orientata più al paternalismo che alla chiarezza, cioè alla necessità di spiegare le cose nella loro effettiva consistenza. Qualche esempio giova a capire. «Il Green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare a esercitare le proprie attività (…) con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose», ha detto il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, il 22 luglio scorso, nella conferenza di presentazione del decreto-legge che ha condizionato al possesso del “green pass” l’accesso a un serie di luoghi. Nonostante il lodevole intento perseguito - indicare la strada per la ripartenza, spingendo le persone a vaccinarsi per il tramite dello strumento normativo del “green pass” – la spiegazione non era corretta. Da un lato, la certificazione ottenuta con tampone negativo – come chiariscono gli scienziati - non garantisce dal rischio di contagio, fornendo solo la fotografia del momento.

Dall’altro lato, circa il “green pass” da vaccinazione, sul sito dell’Aifa si legge che i vaccinati «devono continuare ad adottare le misure di protezione anti COVID-19», non essendo escluso che si possa «trasmettere comunque l’infezione». Parimenti, nel rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità del marzo scorso, intitolato “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2», si legge che, «seppur diminuito» non è possibile «escludere un rischio di contagio anche in coloro che sono stati vaccinati», i quali «devono essere considerati potenzialmente in grado di infettarsi con SARS- CoV-2 e di trasmettere il virus ad altri».

Il presidente del Consiglio avrebbe fatto bene a dire con chiarezza che un ridotto rischio di contagio c’è sempre, anziché tranquillizzare paternalisticamente circa la sicurezza totale conseguente dalla certificazione verde. Perché le persone, da un lato, potrebbero essere indotte ad abbandonare altre precauzioni, se in possesso del “green pass”; dall’altro lato, dopo aver verificato che anche tra vaccinati ci si può infettare - se pure in modo meno grave - potrebbero sentirsi prese in giro. E, se venisse meno la fiducia verso i decisori, potrebbero discenderne reazioni dannose per tutti.

Comunicazione carente

La comunicazione istituzionale è stata talora poco esaustiva, e la disinformazione è proliferata negli spazi lasciati vuoti. Anche in questo caso possono essere utili esempi sul piano del diritto.

Uno dei principali argomenti con cui i no-vax giustificano il rifiuto della vaccinazione è la firma del cosiddetto consenso informato. A loro dire, essa determinerebbe – in caso di danni conseguenti - uno sgravio di responsabilità per lo Stato e la corrispondente assunzione di responsabilità da parte di chi si vaccina. Tutto ciò non è corretto, e sarebbe stato meglio che una fonte ufficiale lo spiegasse chiaramente.

La firma del predetto consenso attesta solo che il paziente è consapevole del trattamento cui si sta sottoponendo. Lo stabilisce la legge (n. 219/2017), che sancisce il diritto di ogni persona «di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile», tra le altre cose, «riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi» del trattamento.

In primo luogo, dunque, il consenso non fa venire meno l’eventuale responsabilità per danni, ad esempio, dell’operatore sanitario che effettui la vaccinazione in maniera non corretta.

In secondo luogo, il consenso informato non esonera nemmeno dalla corresponsione di un indennizzo, là dove dovuto. Come spiegato in un articolo precedente, la legge lo prevede a favore di chi abbia riportato lesioni permanenti da vaccini obbligatori. Negli anni, la Corte costituzionale ha esteso la indennizzabilità anche a specifici vaccini raccomandati. Ciò, da un lato, per «il medesimo rilievo che raccomandazione e obbligo assumono al fine della tutela della salute collettiva» (sentenza n. 268/2017); dall’altro lato, perché non avrebbe senso «differenziare il trattamento tra quanti hanno subìto la vaccinazione per imposizione di legge e quanti vi si sono sottoposti aderendo ad un appello alla collaborazione» (sentenza n. 107/2012).

Come avvenuto per altre vaccinazioni non obbligatorie, anche per quella anti Covid potrebbe essere necessario l’intervento della Consulta al fine di attribuire l’indennizzo a seguito di danni. Le precedenti pronunce della Corte potrebbero non bastare al giudice di merito per riconoscerlo anche in caso di lesioni da vaccino anti Covid. Quindi, il giudice dovrebbe investire la Corte stessa, come nei casi precedenti.

L’esito del giudizio appare comunque scontato. Pertanto, a fronte delle argomentazioni infondate dei no-vax, ci si chiede perché nessuna fonte istituzionale abbia spiegato chiaramente tutto questo. E, altresì, perché il Governo non abbia disposto con decreto-legge l’indennizzabilità delle lesioni permanenti da vaccino anti Covid, così da evitare il ricorso alla Consulta e, soprattutto, da eliminare per via normativa uno degli alibi più usati da chi non vuole vaccinarsi.

Insomma, non solo il diritto è stato comunicato in modo carente, ma ci sono anche state carenze nell’uso del diritto.

Complessità normativa

Fornire una comunicazione istituzionale chiara significa anche scrivere disposizioni lineari e comprensibili per tutti i destinatari, e non solo per gli addetti ai lavori. L’affastellamento delle norme emergenziali negli ultimi due anni rende palese quanto l’obiettivo di chiarezza sia stato mancato.

Si pensi, ad esempio, all’attuale decreto di riferimento per il “green pass” e non solo (n. 52, dell’aprile 2021). Il testo è stato modificato e integrato da almeno otto decreti successivi – oltre a emendamenti apportati a un decreto in sede di conversione - emanati talora a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Quel decreto è ormai un puzzle complicato, composto di una miriade di tessere legate fra loro da una serie di rimandi a una normativa vasta e frammentata, che occorre incastrare con pazienza per ricostruire il quadro vigente.

Tant’è che, in occasione dell’ultimo decreto-legge, è stata redatta una tabella – composta di nove pagine, ciascuna a sei colonne - con l’elencazione delle attività consentite e di quelle vietate tra il 6 dicembre 2021 e il 15 gennaio 2022, a seconda del colore della zona di rischio e del tipo di “green pass” posseduto.

La necessità di uno schema che renda comprensibile il contenuto delle norme sembra la presa d’atto che le istituzioni non sono capaci di scriverle, e prima ancora di concepirle, chiaramente. “Rem tene, verba sequentur”, dicevano i latini: quando si hanno idee chiare, si hanno anche le parole per esprimerle bene. Mai come in questo periodo i destinatari delle disposizioni del Governo se ne stanno rendendo conto. Purtroppo, in negativo.

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