Growing Communities: la scelta ecologica del cibo deve essere un passo collettivo

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è cucina insostenibile. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Dalla vecchia caserma dei pompieri di Hackney, quartiere a est di Londra, ogni settimana vengono preparate decine di scatole colme di frutta e verdura, pronte per essere distribuite nelle case di chi aderisce all’iniziativa delle veg box. Quello delle box non è un concetto nuovo, ma le scatole di Growing Communities, l’associazione che le vende, hanno la particolarità di offrire prodotti coltivati e raccolti esclusivamente nell’hinterland della capitale. Dal lato opposto dell’edificio si trova invece un Iceland, un grande supermercato specializzato nella vendita di prodotti congelati e pasti pronti; mentre sullo stesso isolato ci sono anche un Sainsbury’s e un Tesco, e altri due mini-market. La caserma è circondata. L’alimentazione influenza il pianeta: la dieta planetaria Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione britannica Foodrise, nel Regno Unito la vendita al dettaglio è dominata da dieci catene di supermercati, che rappresentano il 96 per cento delle vendite totali di generi alimentari. Un monopolio. Basti pensare che in Italia la percentuale si attesta intorno al 70 per cento, simile a quella degli altri paesi mediterranei. Le scelte dei supermercati sono guidate dal profitto. Può capitare che il cibo che finisce nel nostro carrello non è quello con i valori nutrizionali migliori e nemmeno quello che ci piace di più, ma semplicemente quello in offerta, che le grandi catene, in base a logiche di marketing e product placement, scelgono per noi. «Per anni enti non-profit e attivisti hanno provato a lavorare a fianco dei supermercati affinché diventassero parte della soluzione» spiega Sunita Ramani, campaign manager di Foodrise. «Non ha funzionato. Sulla carta sono state fatte grandi promesse, c’è stato un cambio di narrativa, ma sono mancate le azioni e l’ambi zione politica». Le altre strade Se da un lato ci sono i problemi causati dalla filiera lunga, contro cui questa volta si punta il dito, dall’altro, ciò che Foodrise vuole evidenziare, è che le alternative esistono. Nel 2008, Julie Brown, oggi a capo di Growing Communities, crea e sviluppa il concetto delle Food Zones, una visione integrata del cibo locale suddivisa in cerchi concentrici, pensata per costruire un futuro alimentare equo e sostenibile, basato sulla fiducia che, chi coltiva la terra, saprà anche proteggerla per le nuove generazioni. In Italia abbiamo familiarità con l’idea della filiera corta, o chilometro zero, che tramite mercati contadini e gruppi di acquisto solidale mette in connessione diretta produttori e acquirenti; ma quello delle Food Zones è, se vogliamo, un approccio ancora più radicale, che chiede di lasciare i supermercati (che sì, a volte sono forniti di prodotti a chilometro zero) completamente fuori dall’equazione, e di affidarci ai vasi del balcone per produrre verdure a foglia, di raccogliere frutta dagli orti pubblici, e acquistare legumi e prodotti di origine animale da aziende che adottano la pratica dell’agroforestazione, situate a una distanza massima di 160 chilometri dal centro città. Sprechi alimentari e upcycling: Reduced nasce con lo scopo di ridurne l’impatto Ciò che appare come una rinuncia, la richiesta di adottare una dieta che provenga per il 60 per cento dalle zone urbane, periurbane e dell’hinterland rurale, è in realtà un invito ad abbracciare la varietà dei prodotti locali e, soprattutto, a prendere coscienza. È solo connettendosi con la terra e con la sua vulnerabilità che sarà possibile proteggerla dalle conseguenze del cambiamento climatico. Finché tutto sarà sempre disponibile, dice il manifesto di Julie Brown, il cambiamento tarderà ad arrivare. «Quando scegli cibo agroecologico, stagionale e poco processato stai togliendo potere alla catena globale dell’approvvigionamento e lo si sta ridistribuendo alle comunità locali» dice Richenda Wilson, membro di Growing Communities. Ma non basta. Il messaggio che entrambe le associazioni vogliono far arrivare è che iper-responsabilizzare i singoli (scegli bio, naturale, plastic free) equivale a scaricare sulle spalle dei cittadini un problema troppo complesso. Servono strategie collettive e legislatori pronti a guidare il cambiamento. [Missing Caption][Missing Credit]