Fadi Saies è siriano e ora studia urbanistica alla Sapienza di Roma. È arrivato in Italia nel luglio del 2019 già con una laurea in Architettura in tasca, proveniente da un campo profughi del Libano. Fadi era fuggito da Aleppo nel 2017 ed è atterrato in sicurezza e dignità con un volo di linea la scorsa estate all’aeroporto di Fiumicino, grazie al programma dei corridoi umanitari organizzati fin dal 2016 dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle chiese evangeliche e dall’otto per mille della Tavola Valdese.

Fadi Sayes oggi vive a Roma nel quartiere di San Lorenzo in un appartamento messo a disposizione dall’Esercito della Salvezza, organizzazione benefica protestante che lo ha accompagnato nell’apprendimento della lingua italiana e gli ha fornito anche un sostegno economico. La sua è una storia simile a quella di tante altre migliaia di profughi che negli ultimi quattro anni sono arrivati in Italia grazie al programma dei corridoi umanitari. C’è Fatima, che ha vissuto in Sicilia, a Scicli, dove ha frequentato la scuola per la prima volta nella sua vita e, contemporaneamente, ha lavorato nella piccola cittadina siciliana come accompagnatrice turistica. E c’è Yasser che era stato costretto a lasciare gli studi a Damasco nel 2017 ed è riuscito a terminarli a Genova, città dove sta finendo di frequentare l’università, lavorando al tempo stesso come programmatore informatico.

Storie di inclusione. Come quella di Meryat, giovane studentessa siriana arrivata anche lei attraverso i corridoi umanitari, che ha frequentato l’università di Ferrara grazie a una borsa di studio. O ancora Ahmad, che era fuggito quattro anni fa dalla Siria insieme alla moglie per curare la figlia di tre anni affetta da una malattia rara. Non sapeva né leggere né scrivere perché, fin da bambino, aveva sempre e soltanto lavorato come meccanico. Ora, grazie alla sua forza di volontà e al sostegno offerto dalla Diaconia Valdese, ha già conseguito la licenza media e in Italia, a Torino, lavora in un’officina meccanica.

Corridoi contro la propaganda

Come ha funzionato la selezione dei potenziali beneficiari l’ha spiegato il coordinatore di Mediterranean Hope, il professor Paolo Naso, che dei corridoi umanitari è stato tra gli ideatori: «Gli operatori hanno privilegiato la collaborazione con l’Unhcr (l’alto commissariato per i rifugiati) e la ricerca di gruppi, associazioni, chiese, ong, che, operando da tempo sul territorio, potevano segnalare casi di particolare vulnerabilità. Queste realtà, svolgendo una funzione di filtro e di mediazione, proteggevano gli operatori da una sovraesposizione che avrebbe potuto suscitare facili illusioni per migliaia di potenziali beneficiari e, nel caso peggiore, motivi che spingevano a migrare». Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, ricorda che la base giuridica che ha permesso l’avvio dei corridoi umanitari «è l’articolo 25 del regolamento dei visti dell’Unione europea che prevede per ciascuno stato membro la possibilità di emettere visti con validità territoriale limitata per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali, con l’ultimo contingente, a febbraio 2020, sono quasi 2000 le persone giunte in Italia dal Libano. Mediante il corridoio aperto con la Caritas dall’Etiopia sono giunti invece fino ad ora 625 rifugiati». Nel gennaio del 2018, infatti, è partito un secondo corridoio umanitario che ha il suo paese hotspot in Etiopia e che interessa ogni anno 500 rifugiati sud sudanesi, eritrei e somali. L’obiettivo è replicare il progetto in Libia.

Obiettivo Libia

«Dopo cinque anni di sperimentazione dei corridoi umanitari dal Libano, è giunto il tempo di farne un’esperienza europea che consideri la necessità di avviare un’iniziativa a sostegno di programmi umanitari di evacuazione dalla Libia», dice a Domani il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il pastore Luca Maria Negro, «abbiamo già avviato dei contatti con il parlamento europeo, la Commissione europea, vari organismi internazionali e anche con il governo italiano, perché questa ipotesi possa essere presa seriamente in considerazione». Poi, aggiunge: «Crediamo che un’efficace strategia di contrasto all’immigrazione “irregolare” e alla disumanità del traffico di esseri umani sia per l’appunto l’apertura di canali legali, che garantiscano protezione a richiedenti asilo in condizioni di marginalità, insomma, sarebbe un’azione umanitaria che l’Italia ha gli strumenti e l’esperienza necessari a poterla avviare per prima, ponendosi a capo di un progetto che potrebbe coinvolgere anche altri paesi europei, un intervento necessario per contribuire a risolvere la crisi umanitaria in Libia».

La politica dimentica

La necessità dei corridoi umanitari sembra mettere d’accordo a parole tutte le forze politiche, che però ancora fanno poco per attivarli. È un fatto che senza il protagonismo, soprattutto finanziario, delle chiese e delle associazioni non sarebbe stato attivato, ad esempio, quel protocollo di intesa tra le chiese e il governo che il 15 dicembre del 2015 ha dato inizio all’esperienza dei viaggi umanitari dal Libano. C’è da dire che a quel tempo il ministero degli Esteri, guidato da Paolo Gentiloni, fece molto per favorire la stipula dell’accordo. Dopo di loro soltanto parole. E per adesso sul fronte dell’accoglienza migranti sembrano essere particolarmente attivi soltanto le chiese e la società civile.

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