C’è chi ha l’orologio indietro o chi usa altri misteriosi canoni di misurazione del tempo e di valutazione delle vite degli altri: il problema è che spesso, se non sempre, il potere tocca a loro. Lo sport non è perfetto ma mostra in molti casi di avere l’orologio in orario, capisce quando è il momento di rappresentare com’è fatta la società, come si sviluppano i percorsi di vita, i problemi, i drammi, come si trovano le soluzioni.

Trent’anni fa Fiona May esordì in maglia azzurra agli Europei di Helsinki (della spedizione faceva parte anche Ashraf Saber, romano e egiziano di Nubia), vent’anni fa Andrew Howe, conosciuto come talentuoso lunghista sin dall’adolescenza, improvviso diciannovenne un 200 in 20”28 e diventò il secondo italiano dopo Pietro Mennea. Erano, ricorrendo al titolo del bel libro di Lilian Thuram, le stelle nere dell’atletica italiana. Eccezioni, allora.

Oggi è sufficiente praticare un rapido esercizio di mnemonica usando i semplici strumenti di una matita e di un quaderno, evitando le meraviglie garantite dalla ricerca mediante clic, per stendere una lista di azzurri che le onde del destino hanno portato dall’Africa Occidentale, Africa Orientale, Sudafrica, Maghreb, Cuba, Texas, Romania, Ucraina.

Sono i frutti di unioni tra migrazioni e scelte, svolte non sempre facili, crescite, sono il risultato di un cambiamento che, nella diversità scandite dalla storia, pone oggi l’Italia al livello di Francia e Gran Bretagna, in un processo inevitabile che ha coinvolto Germania, Spagna, Irlanda, Olanda e paesi scandinavi capaci di misurare e accettare una mutazione imposta dagli eventi, dai movimenti migratori, dagli approdi per fuga dalla fame, dalla guerra.

Protagonisti

Gli itinerari possono essere diversi: Zaynab Dosso, che ha buone chances di diventare la prima italiana a correre i 100 sotto gli 11”, ha raggiunto da ragazzina in Emilia la famiglia dalla Costa d’Avorio; Lorenzo Simonelli, che sta prenotando la finale olimpica negli ostacoli, è figlio di un antropologo italiano e di una donna tanzaniana; Mattia Furlani è nato da un buon saltatore romano e da una velocista senegalese; Marcell Jacobs da un sottufficiale americano e da una signora lombarda; Andy Diaz, in vetta al mondo nel salto triplo, appartiene a una diaspora cubana che lo fatto approdare a Livorno; i fratelli Yeman e Neka Crippa fanno parte di un gruppo di orfani etiopi che una coppia italiana ha scelto di far crescere in Trentino; Sofia Yaremchuk ha lasciato l’Ucraina prima che fosse straziata..

L’elenco è lungo: comprende i maghrebini Ilias Aouani e Ossama Meslek, maratoneta l’uno, milanese, migliarolo l’altro, vicentino, accomunati dalla laurea in Ingegneria; o la discobola Daisy Osakue, di radice nigeriana, dall’accento torinese. Le cadenze possono essere quelle imparate, instillate sin dalla più tenera età: Alessandro Izekor, il colosso di radici nigeriane che ha esordito qualche giorno fa nella Nazionale di rugby, è un bresciano doc o dop. Così come padovano è l’ottocentista Catalin Tecuceanu e triestino, per parte materna, Zane Weir, il più esile tra i colossi, nativo di Durban, che più si è avvicinato all’antico record italiano del lancio del peso e si candida, con il fiorentino Leonardo Fabbri, a una collezione di podi, dai Mondiali indoor di Glasgow, tra un mese, agli Europei di Roma di giugno, sino ai Giochi di Parigi.

Il fattore tecnico

E tutto questo è parte dello sport – dire che è merito dello sport risulterebbe retorico, enfatico – ed è parte di un patrimonio tecnico che pone l’Italia come prima potenza europea, davanti a vecchi padroni asfittici, in primo piano la Germania e la Francia, approfittando anche dell’assenza della Russia, non dovuta al bando ma a una progressiva crisi, a un inaridimento di sorgenti prima incanalate dal sistema dell’Unione Sovietica.

Qui un merito c’è e va appuntato come una decorazione: appartiene alla corporazione o confraternita dei tecnici italiani, un elenco che investe quel caleidoscopio di sport diversi, per attitudine e complessità del gesto, che tutti assieme danno vita all’atletica.

Anche in questo caso un lungo elenco che non può non pescare nel passato e nella tradizione. Un nome per tutti: il 90esimo compleanno non è lontano per Luciano Gigliotti, l’uomo che ha portato all’oro olimpico nella maratona prima Gelindo Bordin, poi Stefano Baldini. Di quel successo, in un imbrunire ateniese, ricorre quest’anno il ventesimo anniversario.

Una visione utopica, degna di una repubblica dei filosofi, vorrebbe gli allenatori tenere in pugno non solo il cronometro ma il timone del movimento, sottraendolo a maggioranze e opposizioni, a demagogie di comodo, a parole d’ordine, a proclami di facciata, a parate di regime, ad alleanze, ad ammiccamenti rivolti alla politica. Come i migliori di tutti i sogni ha zero chances di trasformarsi in realtà. E proprio per questa sua coté irrazionale risulta affascinante, umanissima.

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