In tema di aborto il governo presieduto dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni espande e consolida a livello nazionale politiche già sperimentate dai governi regionali di centro-destra, a partire dall’integrazione dei movimenti di opposizione ai diritti nel tessuto dei servizi socio-sanitari territoriali. Una strategia di lungo corso, descritta in Ristabilire l’Ordine Naturale, una sorta di manuale che sintetizza la visione degli estremisti religiosi per mobilitare le società europee contro i diritti umani in materia di sessualità e riproduzione, documento diffuso da EPF (European Parliamentary Forum for Sexual & Reproductive Rights) e tradotto in italiano da Se non ora quando? Comitato di Torino.

Una strategia su cui la Lombardia ha fatto da apripista e modello a partire dai primi anni duemila quando, anche grazie alla modifica del Titolo V della Costituzione che nel 2001 apre alla regionalizzazione della sanità, in questa regione prende avvio un articolato percorso di riforma in cui il servizio socio-sanitario viene ristrutturato sulla base del «principio della sussidiarietà». Un principio per il quale i servizi forniti da enti privati sulla base di un sistema di accreditamento con la Regione entrano in competizione con quelli pubblici per l'accaparramento di utenti e di denaro pubblico, senza che debbano necessariamente corrispondere le stesse prestazioni. In questa dinamica di riforma di governance si insediano le correnti cattoliche che storicamente militano contro la legalizzazione dell’aborto volontario in nome della «difesa della vita fin dal concepimento».

Sussidiarietà e Centri di aiuto alla vita

La riforma lombarda si innesta su una tradizione storica locale in cui l’associazionismo ha giocato un ruolo importante, ma le sue specifiche basi ideologiche sono gettate da Comunione e Liberazione all'insegna di un fervente antistatalismo e sono consolidate nel quadro del capitalismo neoliberista che si afferma come ideologia egemone a partire dagli anni Novanta. Da CL, ricordiamo, viene Roberto Formigoni, sotto le cui plurime presidenze regionali il sistema lombardo ha modo di radicarsi ed estendersi. Da CL viene anche Lorenzo Malagola, eletto nel 2022 parlamentare nelle fila di Fratelli d'Italia e primo firmatario dell’emendamento al decreto legge sul Pnrr che mira a consolidare nel quadro legislativo nazionale la possibilità per le Regioni di organizzare i consultori avvalendosi anche di «soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» (l’emendamento non si discosta di molto da quanto già contemplato dall’articolo 2 della legge 194). Convinto sostenitore del principio di sussidiarietà, in un’intervista a Tempi alla vigilia delle elezioni nazionali 2022 Malagola dichiarava, appunto, che «il conservatorismo non sarà statalista, sarà sussidiario». 

La più antica e capillare delle reti “pro-life” è quella dei Centri di aiuto alla vita (396 sul territorio nazionale, stando al sito mpv.it), una sorta di sistema vascolare che convoglia e distribuisce risorse economiche per i fini stabiliti dall’associazione a cui i Centri di aiuto alla vita afferiscono: il Movimento per la vita, fondato nel 1980 e promotore nel 1981 dei due referendum per l’abrogazione della legge 194/78 sulla «tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza».

La strategia perseguita dal Movimento per la vita e mutuata poi da altre formazioni è stata quella di innestarsi sulla rete territoriale di consultori ed ospedali pubblici per intercettare le donne che chiedono l’interruzione volontaria di gravidanza e far loro cambiare idea attraverso pressioni o manipolazioni di carattere etico e morale, oltre che con la prospettiva di aiuti economici e materiali. Inizia, appunto, Regione Lombardia con il Fondo Nasko, stanziato nel 2010, seguito nel 2013 dal Fondo Cresco (sostituito tra il 2016 e il 2018 dal Bonus famiglia).

In Piemonte il Fondo vita nascente è stato istituito nel 2022 e portato ad un milione di euro nel 2013 grazie all’impegno di Maurizio Marrone (Fratelli d’Italia), assessore regionale alle Politiche sociali. Anche il Veneto, nel 2021, appronta norme regionali per consentire ai Centri di aiuto alla vita di intercettare le donne che si rivolgono a consultori e ospedali chiedendo di interrompere la gravidanza. Nello stesso anno la Regione Marche inserisce nella legge di bilancio fondi per «interventi di sostegno per la nascita o per l'adozione di figli, in special modo finalizzati alla prevenzione dell'interruzione di gravidanza, ai sensi della Legge 194/1978». Si trattava, in tutti i casi, di contributi economici di modesta portata, che non superano i tremila euro nell’arco di mesi, destinati a nuclei familiari a basso reddito. Non interventi strutturali, dunque, ma briciole per chi le riceve che tuttavia, messe insieme, costano alle Regioni (dunque allo Stato) milioni di euro, sottratti ad interventi di altro segno (la contraccezione gratuita, per esempio?).

Abbiamo riportato solo alcuni casi paradigmatici, perché a frugare nelle pieghe della cronaca locale le tracce si moltiplicano. Nel 2018 i consigli comunali di varie regioni d’Italia sono percorsi da un’ondata di mozioni-fotocopia finalizzate ad «iniziative per la prevenzione dell’aborto e il sostegno della maternità», fondate su presupposti errati e fuorvianti. Tutte proposte da esponenti di centro-destra e in molti casi oggetto di accese proteste da parte di movimenti femministi e opposizioni.

I Centri di aiuto alla vita tra propaganda e realtà

Quanto è stata efficace questa strategia nel limitare il ricorso all’aborto? Claudia Mattalucci, antropologa dell’Università Milano-Bicocca, ha condotto una ricerca etnografica nei Centri di aiuto alla vita lombardi e piemontesi tra il 2010 e il 2014 (ne scrive in un articolo firmato con l’antropologa Silvia De Zordo e pubblicato su Medical Anthropology nel 2022). Oltre alle interviste sul campo – in cui le volontarie dei Centro di aiuto alla vita, tra l’altro, descrivono le beneficiarie degli aiuti come prive di risorse economiche e personali sufficienti a prendersi cura di sé e dei propri figli – le ricercatrici riportano dati tratti dai report annuali dello stesso Movimento per la vita: la maggioranza delle donne che si rivolgevano ai Cav di Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta tra il 2010 e il 2016 non erano incinte.

A livello nazionale, solo il 38% chiedeva aiuto entro i primi 90 giorni di gravidanza e di queste solo il 9% aveva un certificato di richiesta di interruzione. Nell’82% dei casi erano “straniere” e con difficoltà economiche, inclusa la perdita di lavoro e casa. «I dati dimostrano – scrivono Mattalucci e De Zordo – che più che “salvare bambini dall’aborto” i CAV hanno assistito donne che, nella maggioranza dei casi, non avrebbero comunque interrotto la gravidanza». Dati più recenti presenti sul sito del Movimento per la vita suggeriscono che la situazione non sia molto cambiata, visto che nel 2021 le donne assistite sono state 26.485, di cui 9.916 donne incinte e 16.596 “altre donne”.

Come leggere i recenti sviluppi parlamentari

L’emendamento sotto l’occhio della cronaca politica non inventa nulla di nuovo, ma si innesta su una catena di esperienze pregresse e si insinua nelle possibilità già previste dalla legge 194/78. Tuttavia è insidioso, perché potrebbe garantire percorsi agevolati a procedure che prima richiedevano almeno uno sforzo amministrativo (leggi di bilancio, stanziamento di fondi, convenzioni, etc.) Inoltre, potrebbe rendere più difficoltose azioni di contrasto come quella fatta in Piemonte da Snoq? Torino e Cgil con il ricorso al Tar contro la “Stanza dell’ascolto per le donne” voluta da Marrone. In ogni caso, evidenzia la direzione di una compagine politica che agisce per imporre una visione del mondo opposta a quella che ha garantito, nel secolo scorso, l’affermazione dei diritti civili, tra gli altri l’aborto sicuro e legale come diritto umano e pratica salvavita per milioni di donne. Compagine che oggi siede sugli scranni e detta legge.

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