Una volta esposte le verità accertate nel corso degli anni, occorre evidenziare che, in ordine ai fatti stragisti terroristico-eversivi del biennio 1993-94, dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che hanno imposto e impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione dei delitti in questione. Vanno ricordati sicuramente alcuni interrogativi rimasti tali, le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti «mandanti a volto coperto», come li ha chiamati Piero Luigi Vigna, in una importante conferenza sulle stragi tenuta a Firenze nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Tutto questo fa parte di altri filoni di indagini, che impongono di continuare a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e dei tanti feriti, unitamente al condizionamento provocato da tali attentati alla nostra democrazia, che lo richiede.

Lo esige la coscienza critica e morale della società civile: senza verità completa non c’è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti. Pur collocandosi le investigazioni espletate in tale direzione – negli ultimi quattro anni e mezzo – nel solco di quanto prima di noi i colleghi fiorentini avevano fatto e nel quadro di un coordinamento con la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e altre Procure della Repubblica, il nostro ufficio è stato oggetto di attacchi istituzionali e mediatici a ogni livello, senza precedenti, derivanti dai doverosi approfondimenti, il che ha reso più difficoltoso il cammino compiuto alla ricerca della verità. Nel soffermarsi specificatamente sui quesiti rimasti aperti, sulla base delle risultanze dibattimentali, va sottolineato quanto segue.

Se si è dimostrato che il momento genetico del disegno criminoso attuato nel biennio terribile del 1993-94 affonda le sue origini nel 1992, occorre chiedersi come mai Paolo Bellini, appartenente ad Avanguardia Nazionale, di recente condannato con sentenza di primo e secondo grado per aver partecipato alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, s’incontrava con Antonino Gioè, mentre erano in corso i preparativi della strage di Capaci (alla quale Gioè contribuì attivamente), e perché istillava il proposito di colpire la Torre di Pisa, secondo le indicazioni di affidabili collaboratori di giustizia? Un proposito che ha avuto un concreto principio di esecuzione.

Se piuttosto evidente è stata la spinta ad agire degli esponenti di Cosa nostra, più difficile da decifrare appare quella di Bellini. Si noti che il progetto di colpire detto obiettivo aveva trovato un principio di esecuzione, come ha riferito il collaboratore Pietro Romeo, per averlo appreso da Giuliano. Questi ha, infatti, dichiarato che erano stati effettuati dei sopralluoghi a Pisa, quando ancora Salvatore Riina era latitante. Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993, sono rimaste oscure, tanto più se si considera che lasciava una sorta di lettera testamento nella quale, fra l’altro, menzionava Paolo Bellini, scrivendo che era un infiltrato. Bellini era anche un sicario della ‘ndrangheta.

Se il 12 agosto 1992 Bellini incontrava il maresciallo Roberto Tempesta, il giorno seguente a Cutro uccideva Paolo Lagrotteria. Quali i suoi rapporti con gli esponenti della destra eversiva e gli esponenti dei servizi segreti? Come mai le anticipazioni sulle intenzioni degli appartenenti a Cosa nostra veicolate a esponenti delle Forze dell’Ordine da Bellini, prima, circa il progetto di colpire la Torre di Pisa, e da Angelo Siino poi sul fatto che l’esecuzione delle stragi sarebbero state effettuate al Nord non hanno consentito di impedire l’escalation di violenza del 1993? Il 15 gennaio 1993, Salvatore Riina e Salvatore Biondino quel mattino si stavano recando presso l’abitazione di Biondino. Il collaboratore di giustizia Fabio Tranchina, infatti, ha riferito di aver accompagnato quel giorno Giuseppe Graviano in via Tranchina, per incontrarsi con Salvatore Riina, ove lo aveva lasciato alle 8,30 dinanzi al portone d’ingresso del locale in cui doveva partecipare a un “summit” e dove lo aveva già accompagnato diverse altre volte in precedenza; aggiungendo che, dopo l’arresto di Riina, lo stesso Graviano gli aveva comunicato che ci sarebbe stata molto probabilmente una guerra, nel senso che con il loro agire mediante attentati avrebbe dovuto far capire come si sarebbero dovute fare le leggi (anche se già vi erano assicurazioni).

Sulla stessa linea, Giovanni Brusca ha dichiarato che il giorno dell’arresto di Totò Riina, avrebbe dovuto esserci una riunione con la partecipazione, oltre che dello stesso Brusca, di altri capi mandamento, tra i quali Salvatore Biondino e Matteo Messina Denaro, nel corso della quale si sarebbe dovuto decidere sulla prosecuzione della strategia stragista. Se fosse stata effettuata tempestivamente la perquisizione a casa Biondino o se l’arresto fosse avvenuto a destinazione e non lungo il tragitto sarebbero stati, dunque, catturati Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e altri e verosimilmente non vi sarebbero state le stragi del 1993-94.


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