Ma quando è stata scritta questa sentenza sul “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”? Nel 2023 o nel 1993? Oggi o trent’anni fa?

Sfogliando i giornali degli ultimi giorni sembra di rivedere gli stessi titoli di allora, lo stesso contenuto degli articoli, fra le righe si rintracciano gli stessi dubbi e gli stessi sospetti di sempre.

Eppure di tempo ne è trascorso, e anche tanto. Ma la “verità”, parola grossa, su chi ha deviato le indagini sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino si è smarrita in un diluvio di frasi che dicono tutto e niente, che ci catapultano in un passato eterno.

Le “rivelazioni” clamorose

«Non fu solo la mafia». È questa la prima clamorosa rivelazione, così clamorosa che è venuta in mente a ogni siciliano in età adulta e in grado di intendere e volere già la notte fra il 19 e il 20 luglio del 1992, quando ancora non si erano spenti i piccoli roghi fra le lamiere di via Mariano D’Amelio e i parà della Folgore si stavano lanciando sul carcere dell’Ucciardone per deportare i boss della Cupola nelle isole del diavolo di Pianosa e Asinara.

Ci volevano davvero trenta e passa anni per “svelarci” che non è stata solo la mafia a far saltare in aria un magistrato come Borsellino, appena cinquantasei giorni dopo la strage di Capaci?

E poi la famosa agenda rossa, un totem, una sorta di scatola nera che contiene ogni mistero dei massacri siciliani. Testuale, dalle motivazioni della sentenza: «Può ritenersi certo che la sua sparizione non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra».

Un’altra sorpresa, un'’altra grande scoperta. Come se qualcuno, allora come oggi avesse mai pensato che a sottrarre la borsa del procuratore con dentro l’agenda fosse stato Totò Riina o Giovanni Brusca, o qualcuno degli altri macellai che dopo avere acceso la miccia era ancora lì ad aggirarsi sulla scena del crimine aspettando il momento più propizio per afferrare la borsa.

Non possiamo (e non vogliamo) gettare la croce addosso ai magistrati giudicanti, e tantomeno ai pubblici ministeri di Caltanissetta che una decina di anni fa hanno avuto il grande merito di sbugiardare falsi pentiti come Vincenzo Scarantino e arrivare alla revisione del processo Borsellino – e questo sì che è stato clamoroso – ma francamente venire a sapere via sentenza ciò che già sapevamo anche trent’anni fa non è una vittoria e neanche un sollievo.

Al contrario, è la conferma che oltre un certo livello la giustizia italiana non fa giustizia perché probabilmente non la può fare.

La replica di altre vicende

La vicenda del procuratore Borsellino sembra la fotocopia, la replica di tante altre storie politico criminali, strategia della tensione prima sul fronte nord e poi strategia della tensione dall'altro capo dell’Italia.

La strage di piazza Fontana del dicembre 1969 a Milano, quella di piazza della Loggia a Brescia del maggio 1974, l’attentato al Rapido 904 nelle gallerie dell’Appennino tosco-emiliano del dicembre 1984, le bombe ai Georgofili di Firenze del maggio 1993.

Grandi inchieste giudiziarie, mandanti sempre presunti, processi infiniti, bis, ter, quater, grande rumore e poi niente, nulla, il vuoto. Per il caso Borsellino sono usciti dal reticolato delle accuse – il reato era di calunnia aggravata per avere favorito la mafia – anche i pesci piccoli, tre poliziotti, uno assolto e due salvati dalla prescrizione.

Ma non è certo questo il punto. Fanno impressione piuttosto le ovvietà che si rincorrono a commento della sentenza. Come questo: «Non c’è solo lo zampino della mafia». Verissimo, c’è lo zampone di qualcun altro che non è stato trovato.

O come questo: «Bugie e silenzi di stato, amnesie di molti appartenenti alle istituzioni». Ancora più vero. Se ne prende atto, come se fosse inevitabile fermarsi lì. Basta lo slogan per placare gli animi: Borsellino, strage di mafia e strage di stato.

Basta un verdetto che accerti la presenza o l’ingerenza di “terzi soggetti” nella strage di via D’Amelio, che importa poi che siano rimasti ignoti, come se fosse solo un dettaglio secondario, insignificante.

Gli stessi “terzi soggetti” che sono intervenuti per alterare il quadro delle investigazioni «evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio». Ombre, dopo trent’anni sono solo ombre che si allungano per l’Italia.

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