Alcuni alimenti possono indurre in chi li consuma un sentimento di “conforto”, ed è per questo che vengono chiamati comfort food. Gelato, merendine, cioccolato, patatine fritte o altri cibi con un elevato contenuto di zuccheri, sale o grassi (prodotti HFSS, che sta per high in fat, salt, sugar), quindi poco sani, possono attivare in alcune persone un meccanismo di ricompensa, di piacere gratificante, di rilassamento, di consolazione, a fronte di uno stato d’animo di malessere o di disagio.

Ma se gli adulti si suppone siano in grado di compiere scelte consapevoli, anche quando esse danneggiano la loro salute, non così i minori, più vulnerabili alle pubblicità veicolate attraverso televisione o social media. Ed è per questo che da più parti si è posta particolare attenzione alle iniziative commerciali destinate ai bambini.

Oms

Nel marzo scorso, la sede europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha aggiornato il modello di profilo nutrizionale - “WHO/Europe Nutrient Profile Model (NPM)” – che aveva elaborato nel 2015 con il fine di proteggere i bambini dal marketing di bevande analcoliche e cibi non sani, provvedendo a «classificare gli alimenti in base alla loro composizione nutrizionale».

Il modello di profilo nutrizionale dell’Oms fornisce per 22 categorie di alimenti e bevande analcoliche - dalle merendine ai succhi di frutta, dagli snack salati al cioccolato spalmabile - le soglie da non superare in termini di contenuto calorico, grassi totali, grassi saturi, acidi grassi trans, zuccheri totali, zuccheri aggiunti, dolcificanti non zuccherini e sodio. In pratica, per capire se un cibo è salutare, bisogna identificare la categoria in cui rientra l’alimento o la bevanda e confrontare il suo contenuto nutrizionale con le soglie del modello Oms. Se le caratteristiche nutrizionali dell’alimento o della bevanda considerata li rendono sufficientemente salutari, allora possono essere commercializzati a bambini e adolescenti.

Nel febbraio 2022, in un report intitolato «Esposizione e potere del marketing alimentare», l’Organizzazione ha rilevato come la maggior parte della promozione pubblicitarie si concentri su prodotti malsani, come «il cibo fast food, le bevande zuccherate, il cioccolato, snack dolci e salati, merendine» ecc.. Inoltre, «il marketing alimentare che promuove cibi meno salutari è prevalente negli ambienti in cui i bambini si riuniscono (ad esempio scuole e club sportivi) e in televisione, più frequente durante gli orari di visione dei bambini, durante le vacanze scolastiche, sui canali dedicati o dentro a programmi per bambini rispetto ad altri periodi, canali o generi di programmazione».

Anche per questo, secondo l’Oms, servono limiti alla pubblicità di cibi e bevande destinati ai minori, dato che le tecniche promozionali utilizzate sono tali da condizionarne le scelte. «Con l’aumento delle percezioni positive degli adolescenti nei confronti della pubblicità alimentare, è aumentata anche la frequenza giornaliera del consumo di alimenti che contribuiscono a diete malsane». Gli adolescenti che oggi poco consapevolmente trovano gratificazione in certi cibi saranno gli adulti che domani si rifugeranno nel comfort food.

L’Unione europea

Anche l’Unione europea si è occupata di limiti alla commercializzazione di alimenti ricchi di grassi, zuccheri e sodio nei riguardi dei minori, con l’iniziativa di autoregolamentazione denominata EU Pledge.

All’iniziativa, aggiornata da ultimo nel luglio 2021, hanno aderito le principali industrie alimentari europee, impegnandosi a effettuare comunicazioni di marketing trasparenti e responsabili, nonché a favorire e supportare la scelta di una dieta sana. In particolare, a non pubblicizzare cibi e bevande ai bambini di età inferiore a 13 anni (ad eccezione dei prodotti che soddisfano criteri nutrizionali specifici); a non effettuare attività di marketing o pubblicità nelle scuole primarie, salvo se concordato per scopi didattici; a rispettare il Codice di pratica della comunicazione pubblicitaria e di marketing della Camera di commercio internazionale (ICC) ; e l'ICC Framework for Responsible Food and Beverage Marketing Communications.

Tuttavia, un’indagine dell’organizzazione europea dei consumatori, Beuc, ha rivelato falle in quest’iniziativa di autoregolamentazione. Restano esclusi dalle restrizioni molti programmi televisivi guardati regolarmente dai bambini, nonché ambienti digitali come i social network. Il meccanismo di segnalazione delle violazioni è lento e complesso da usare. Inoltre, vengono ignorati totalmente i ragazzi dai 13 anni in su, anche se ancora minorenni.

Italia

Anche l’Italia ha focalizzato l’attenzione sul marketing di prodotti alimentari e bevande destinato ai bambini. L’Istituto dell’Autodisciplina pubblicitaria (Iap) ha predisposto una tutela specifica per questi ultimi nel Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale. Tale tutela è stata ampliata dall’IAP con il Regolamento per la Comunicazione Commerciale relativa ai prodotti alimentari e alle bevande, a seguito della direttiva 1808/2018 sui servizi di media audiovisivi (recepita in Italia con d.lgs. n. 208/2021), che richiama il ricorso a codici di autoregolamentazione per ridurre l’esposizione dei minori a pubblicità commerciali relative ad alimenti o bevande che contengono sostanze nutritive la cui assunzione eccessiva non è raccomandata.

Sulla base di questa disciplina comunitaria, l’Iap ha introdotto uno specifico riferimento ai prodotti ricchi in grassi, zucchero e sale, fissando specifici paletti alla relativa comunicazione pubblicitaria. Insomma, la pubblicità di certi alimenti non è vietata, ma le regole sono più restrittive quando essa è rivolta a bambini e preadolescenti.

Il divieto è la strada giusta?

L’Organizzazione mondiale della sanità e organizzazioni sociali e sanitarie, come l’European Childhood obesity group (Ecog), il Gruppo europeo sull’obesità infantile e il Beuc hanno fatto appello all’Unione europea, affinché adotti una regolamentazione più forte e vincolante, che imponga divieti stringenti, per proteggere i bambini dal marketing di certi cibi malsani. Ma vietare per via normativa, e non solo attraverso codici di autoregolamentazione, è la strategia giusta?

Ogni divieto rischia sempre di attivare la ricerca del proibito. Forse sarebbero più efficaci campagne di comunicazione e sensibilizzazione - rivolte sia ai minori, a scuola e negli altri ambiti da essi frequentati, sia ai genitori, per accrescerne le competenze anche alimentari - che inducano a scegliere in modo più consapevole fra i prodotti disponibili sul mercato, nell’ambito di un’alimentazione quanto più varia ed equilibrata. Se non si acuiscono le facoltà di discernimento degli individui sin da bambini, ma li si rendono solo oggetto di divieti, è difficile possano diventare adulti consapevoli, capaci di assumere le decisioni migliori, anche per la propria salute.

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