Se il modernismo ha aperto le porte al concetto di gusto “internazionale” allora il vino naturale è stato il preludio del postmodernismo. Una tesi che guarda al passato più o meno recente del vino cercando di tracciarne sviluppi e tendenze, e come queste abbiano influito a formare l’estetica del vino contemporaneo
Che il sito e la newsletter di Tim Atkin siano tra i contenitori più stimolanti del panorama editoriale contemporaneo non è una novità. Sono anni che il giornalista e Master of Wine inglese pubblica con costanza articoli, report, editoriali non solo sul vino “bevuto”, panoramiche su determinate regioni produttive, ma anche riflessioni più ampie sul vino contemporaneo, sulle sue tendenze e sulle sue criticità. Non stupisce, quindi, che uno dei pezzi più rilevanti delle scorse settimane sia apparso proprio sul suo sito: l’ha scritto Peter Pharos e si intitola “Postmodern wine”.
Un racconto che ripercorre la storia recente del vino, quella che ne ha caratterizzato gli ultimi decenni. Un periodo di tempo relativamente breve, specie se paragonato a quelli, sempre piuttosto lunghi, della vite. Se è infatti vero che affinché un vigneto entri nella sua fase produttiva più interessante serve molto tempo, almeno vent’anni, è altrettanto certo che il mondo del vino si muova con ben maggiore velocità, con tendenze sempre nuove che ne caratterizzano il mondo produttivo.
«Il periodo classico è facilmente riconoscibile», scrive Pharos. «Aveva un'estetica uniforme e una gerarchia rigida, che attingeva in parti uguali dalla tradizione e dal misticismo (…) Poi, all'inizio degli anni Settanta, compaiono le prime tendenze moderniste. Il modernismo del vino era tecno-ottimista: credeva che scienza e tecnologia fossero la risposta. Anch'esso aveva un insieme di regole, anzi più di prima, ma in esse cercava coerenza e razionalità». Soprattutto, aggiunge, «il modernismo enologico era curioso e aperto al nuovo anche perché più orientato agli affari e al denaro: l’aspetto economico della sua razionalità prevedeva che il cliente avesse sempre ragione e che vincesse chi dava ragione al maggior numero di clienti e chi realizzava il maggior profitto».
Non solo, il modernismo è stato anche sinonimo, per la prima volta, di internazionalismo. Sono nati canoni di giudizio universalmente condivisi, utili a “punteggiare” tanto un bianco della Borgogna, in Francia, che di Napa, in California. Con un ma: «la tecnologia e la tecnica portano l'economia, che porta alla massificazione. L'internazionalizzazione genera uniformità, che genera conformità». Da una parte era possibile per la prima volta acquistare vini provenienti da luoghi tanto diversi quanto lontani, dall’altra questi risultavano inesorabilmente sempre uguali anche se prodotti in diversi continenti, frutto non solo del medesimo approccio enologico: «c’era lo stesso intento, la stessa ambizione, la stessa narrazione, erano la stessa cosa».
Poi è arrivato il vino naturale, la reductio ad absurdum del modernismo: un vino «contemporaneamente tecnico (per fare un vino naturale decente bisogna avere una conoscenza molto solida sia della viticoltura che della vinificazione) e anti-tecnologico. Ferocemente locale e inquietantemente globalizzato», la cui vera rivoluzione è stata relativa alla sua capacità di sradicare ogni possibile convinzione sull’estetica del vino. A un certo punto valeva tutto o quasi: a un estremo la marmellata di ciliegie di parkeriana memoria, a quell’altro il più difettato dei vini senza anidride solforosa aggiunta. Nel mezzo tutto un mondo. È lì che si trovano le fondamenta del vino contemporaneo, del vino cosiddetto postmoderno. «Non esiste un canone né esistono delle vere e proprie regole. Tradizioni e gerarchie sono ovunque, come un pastiche. Le narrazioni sono allo stesso tempo storiche e antistoriche». Non solo: l’espressione più pura del postmodernismo enologico, secondo Pharos, è la sua ambizione nel voler dare risposte che ne travalicano l’essenza, la volontà cioè di avere un ruolo attivo all’interno delle grandi discussioni sui temi di maggior attualità, dal caos climatico alla giustizia sociale.
Sullo sfondo la consapevolezza dell’autore, condivisa, che non si sia mai bevuto bene come oggi. Che il postmodernismo sia anche sinonimo di una coscienza nuova che guarda al passato con il giusto occhio critico e che cerca di valorizzare il proprio territorio senza pregiudizi. Quel luogo unico e irriproducibile che esprime ogni vino di qualità, ovunque. Fino alla prossima rivoluzione.
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