Fuori dal branco non è mai facile sopravvivere. Capita anche ai magistrati. Almeno a quelli che vanno controvento, che non si piegano alle convenienze del momento, che sono in balìa delle correnti nel senso che non ne hanno mai avuto una. Non fanno carriera nonostante l’eccellente reputazione professionale, non hanno cordate che li sostengano dentro o fuori da palazzo dei Marescialli, se per malasorte finiscono in qualche impiccio sono spacciati. Perché nessuno li difende.

Anzi, c’è chi aspetta solo un passo falso. «A un certo punto io mi sono sentito davanti a un plotone di esecuzione e ci sono stati giorni in cui ho pensato al suicidio», ci dice uno di loro che racconta i suoi trent’anni con addosso la toga in un pomeriggio dove s’incrociano e si rincorrono ancora dopo mesi le “rivelazioni” di Luca Palamara, le vergogne sulla spartizione delle poltrone e degli incarichi direttivi al Consiglio superiore della magistratura, le intercettazioni dei trojan, gli scandali, le faide, lo “spettacolo” che una parte della giustizia sta offrendo all’Italia esibendo il suo volto peggiore.

È uno dei tanti, ce ne sono altri di magistrati soli, più sconosciuti o più silenziosi, appassionati (una volta) del loro mestiere, oggi disincantati, arrabbiati, delusi e nauseati da ciò che vedono vicino e intorno. «E adesso sono anche sconvolto per quello che ho fatto: io contro l’Italia, non lo avrei mai pensato. Ho presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro lo stato italiano, per il G8 di Genova mi hanno condannato a morte senza mai darmi la possibilità di difendermi: nemmeno un testimone. Nemmeno un cazzo di testimone mi hanno ammesso in due decenni».

Il magistrato che abbiamo davanti è Alfonso Sabella, 58 anni, siciliano di Bivona – un piccolo paese della provincia di Agrigento – mamma e papà avvocati, la sorella Marzia procuratore aggiunto a Palermo (era nel pool che ha coordinato la cattura di Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza), pubblico ministero, giudice, un’esperienza all’amministrazione penitenziaria, trasferimenti continui fra Palermo e Roma, Firenze e Napoli, assessore alla legalità nella giunta Marino della capitale e «condannato a morte senza prove». La Corte dei conti prima gli ha chiesto un milione e 300mila euro, scesi poi a qualche decina di migliaia di euro, ma con l’ipoteca sull’intero patrimonio. Nonostante l’anzianità e un curriculum di rispetto, Sabella è stato “posato”, abbandonato da tutti. Forse perché si è fatto la fama di rompipalle. E, in effetti, Alfonso Sabella rompipalle lo è. Fin dal principio.

Contro il procuratore

Nel 1989 ha il suo primo incarico alla procura della repubblica di Termini Imerese. Comincia bene, anzi malissimo: denuncia il suo capo al Consiglio superiore della magistratura. È Giuseppe Prinzivalli, nemico giurato di Paolo Borsellino, un magistrato che con una sentenza tenta di scardinare “l’unicità di Cosa nostra” e che in seguito sarà accusato di concorso esterno per “aggiustamento” di processi, con una vicenda che è finita in prescrizione. Da Termini Imerese il trasferimento a Palermo, un anno dopo le stragi. Nella capitale siciliana c’è Gian Carlo Caselli, si apre la stagione delle grandi inchieste sulle collusioni fra mafia e politica ma è anche l’inizio della fine dei Corleonesi.

La struttura militare di Cosa nostra siciliana viene disarticolata, si cercano per la prima volta i latitanti, sino a quel momento sempre liberi a casa loro. C’è chi fa le indagini sulla politica e chi fa il lavoro “sporco”. Uno di questi è Alfonso Sabella, un pm “da marciapiede”, metà del tempo delle lunghissime giornate le passa nella sua stanza al secondo piano del tribunale e l’altra metà negli uffici della squadra mobile con la squadra “Catturandi”. Il quartiere di Brancaccio, roccaforte dei palermitani fedelissimi a Totò Riina, viene svuotato. Centinaia di arresti. E poi quelli eccellenti di Giovanni Brusca e Pietro Aglieri, di Leoluca Bagarella e Nino Mangano, di Vito Vitale e Nicola Di Trapani, Fifetto Cannella e Carlo Greco.

La “crema” mafiosa di Palermo. Per Sabella tutto sembra andare per il meglio sino a quando le sue indagini lo portano a vedere che c’è qualcosa che non va dentro gli “equilibri instabili” di Cosa nostra. Raccoglie voci investigative sugli “scappati” (i boss costretti a lasciare la Sicilia per sfuggire a Totò Riina) che sarebbero tornati per vendicarsi, con scorribande in qualche modo favorite da apparati dello stato. Siamo intorno al 1995, Sabella manifesta dubbi e trova qualche resistenza anche all’interno della sua procura, qualcuno comincia a storcere il naso per quel collega che non si accontenta dei “risultati” ma vuole capire meglio cosa sta accadendo.

Collaboratori di giustizia

Sono solo malumori. Che però esplodono, e per le stesse ragioni, ancora qualche anno dopo. Il teatro di guerra mafioso non è più Palermo ma San Giuseppe Jato, piccola grande capitale del crimine dove un capo – Giovanni Brusca – è stato appena catturato e fra mille tormenti sta cominciando a collaborare e un altro capo – Balduccio Di Maggio – si è pentito ed è testimone chiave in quello che viene chiamato “il processo del secolo”, il senatore a vita Giulio Andreotti a giudizio per associazione mafiosa. Il problema sono proprio loro due, Brusca e Di Maggio. Non si sono mai sopportati e adesso uno cerca di far fuori i fedelissimi dell’altro.

È Balduccio Di Maggio che, insieme ai pentiti Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, scendono in Sicilia per fare terra bruciata intorno a Brusca. In procura sembra che non se ne accorgano, i reparti speciali dei carabinieri pare (pare, soltanto) che non ne sappiano nulla, Sabella denuncia «l’uso dinamico dei pentiti». In altre parole: sostiene che un pezzo di stato è al fianco di un pezzo di mafia per eliminare la fazione avversaria. Da quale parte sta il pezzo di stato? Con gli uomini fedelissimi a Bernardo Provenzano, il “moderato” dei Corleonesi. In procura scoppia il caso e qualche segreto trapela all’esterno. Da quel momento i reparti speciali agli ordini del generale Mario Mori sono fuori da ogni indagine ma, pure a Palermo, Sabella ormai si è fatto la fama di piantagrane.

Il bugiardo sbugiardato

Anche perché fra la cattura di un latitante e un altro, due volte interroga Vincenzo Scarantino e lo bolla come “totalmente inattendibile”. Gli dice in faccia: «Se lei è un mafioso, io sono un fisico nucleare». Altri invece credono al bugiardo Scarantino e imbastiscono un’inchiesta che si rivelerà «fra i più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Troppe volte contro, Sabella lascia Palermo per un incarico più oscuro, di collegamento fra il ministero della Giustizia e la commissione parlamentare Antimafia. Poi è capo dell’ufficio ispettivo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il nuovo direttore è Caselli. Nuovi guai verranno dopo.

Un giorno, è il 25 maggio 2000, Caselli lo chiama e gli dice che al procuratore nazionale Pierluigi Vigna, storico rappresentante di Magistratura indipendente, la corrente di destra dei giudici, è arrivata una richiesta di “dissociazione” firmata da quattro boss di Cosa nostra. Sono Pietro Aglieri, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi e Piddu Madonia. È la nuova strategia mafiosa dopo i colpi subiti dalla repressione poliziesca e giudiziaria. Senza pagare pegno, vogliono uscire dal vicolo cieco dove li ha condotti Totò Riina con la sua linea.

È una mossa scaltra e qualcuno cede. Vigna spinge per fare incontrare in carcere quei quattro con gli altri grandi capi: Mariano Agate, Salvino Madonia, Carlo Greco, Pippo Calò e Nitto Santapaola. La mafia siciliana al gran completo. Sabella e Caselli segnalano al ministro della Giustizia Piero Fassino i rischi di quell’operazione, il ministro è d’accordo: con i boss non si tratta. Ma le cose cambiano in fretta. Un anno dopo al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non c’è più Caselli ma arriva l’ex procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra (anche lui di Magistratura indipendente), quello che – violando ogni legge – affida di fatto le indagini sulla strage di via D’Amelio a Bruno Contrada, il numero 3 dei servizi segreti civili che dopo qualche mese verrà arrestato per concorso esterno.

Tinebra è anche il procuratore che ”accredita” il falso pentito Vincenzo Scarantino. Sabella scopre che, da settembre del 2001, quei nove capimafia che Vigna voleva far incontrare - precedentemente in diverse carceri - sono tutti insieme a Rebibbia. Dove c’è anche il mafioso Salvatore Biondino, che fa domanda di fare lo “scopino” e muoversi liberamente da una cella all’altra. Sabella il 4 novembre del 2001 presenta una relazione a Tinebra e il capo del Dap il giorno dopo sopprime l’ufficio di Sabella per “una riorganizzazione del dipartimento”. Una coincidenza? Sabella invia una segnalazione al Consiglio superiore della magistratura. La risposta dei consiglieri progressisti di palazzo dei Marescialli: «Non possiamo spaccare l’unità dell’Associazione nazionale magistrati per difendere te».

A Roma non ci sono posti

Cacciato dal Dap, Sabella vuole andare a Roma come sostituto procuratore. Ma per il “cane sciolto”, allergico a correnti e spartizioni, “posti non ce ne sono”. Così gli dicono al Csm. E così diventa pubblico ministero a Firenze. Vent’anni dopo, rileggendo la storia di Luca Palamara, radiato e a processo per corruzione, Sabella si accorge di un particolare non trascurabile. Nel 2002, quando per lui a Roma non c’era spazio, si libera pochi giorni dopo un posto per Palamara, quello che diventerà segretario dell’Anm e collettore di nomine e incarichi per i magistrati di tutta Italia. All’arrivo a Firenze, Sabella viene salutato con un’insolita riunione, di sabato, del comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza e con un solo punto all’ordine del giorno: la revoca della sua scorta.

Dagli arresti degli “scannacristiani siciliani erano passati solo tre anni, ma per l’allora prefetto Achille Serra bastava e non c’erano più pericoli per l’incolumità del magistrato. La valanga che lo travolge arriva subito dopo. Nel 2003 viene indagato nell’ambito dell’inchiesta della procura di Genova sulle violenze del G8, i pestaggi della polizia penitenziaria contro i manifestanti nella caserma di Bolzaneto. Questa vicenda è quella che occuperà gli ultimi vent’anni di vita del magistrato, ma prima c’è anche altro.

La guerra al Dap

È il 2011 e, dopo l’esperienza da pubblico ministero a Firenze e da giudice a Roma, il governo di centrodestra lo nomina direttore generale delle risorse materiali al Dap. All’epoca il ministro della Giustizia è Francesco Nitto Palma, magistrato in aspettativa. Sabella viene scelto per mettere ordine sul piano carceri, un’operazione edilizia da 700 milioni di euro da completare in un paio di anni e che si rivela uno spreco. Sabella segnala al ministero della Giustizia che quel piano è solo sulla carta: tutti quei soldi e mai messa una sola pietra. Al vertice del piano carceri c’è Angelo Sinesio, braccio destro dell’allora ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. A maggio 2012, con lo scandalo della Protezione civile, il parlamento decide di spazzare via “tutti i commissari entro il 31 dicembre”, tutti tranne uno. Perché Sinesio, il 3 dicembre, viene rinominato commissario straordinario del piano carceri dal presidente della Repubblica.

Sabella denuncia tutto alla procura di Roma – i frazionamenti illeciti delle gare, i costi esorbitanti di quei progetti, le anomalie delle offerte – compreso l’illegittimità dell’atto amministrativo del capo dello stato in deroga a una legge ordinaria, ma tutto viaggia verso l’archiviazione. Un’altra mossa che non lo rende molto simpatico ai piani alti dei palazzi. Dopo il Dap, il sindaco di Roma Ignazio Marino lo nomina assessore alla Legalità. Un’avventura di pochi mesi, Sabella cerca di riportare la normalità a Ostia, ordina lo sgombero di una delle palestre di Roberto Spada, l’abbattimento di alcuni manufatti abusivi sul lungomare. Ma gli strascichi giudiziari del G8 puntualmente arrivano e sconvolgono la sua esistenza.

Genova

Sabella era stato inviato a Genova in vista degli “arresti preventivi” annunciati con l’arrivo dei black bloc da ogni angolo d’Europa. È lì a coordinare le attività del Dap anche nella caserma di Bolzaneto, dove agenti di polizia penitenziaria compieranno violenze sui manifestanti. Sabella viene indagato per abuso d’ufficio e d’autorità, perché quelle violenze non ha le impedite.

Ma il magistrato quando vengono commessi gli abusi non è a Bolzaneto. Così chiede di essere sentito per spiegare, chiede l’acquisizione dei tabulati telefonici per provare come, al momento dei pestaggi, lui fosse altrove. Ricorda: «Quando acquisiscono i tabulati, il traffico relativo alla cella territoriale che io occupavo durante le violenze era stato cancellato e quindi non si poteva dimostrare se io fossi a Bolzaneto o in un altro posto». Si oppone persino alla richiesta di archiviazione avanzata dai pubblici ministeri perché vuole essere giudicato e assolto nel merito, ma il giudice - esponente della corrente di Magistratura democratica - archivia macchiando per sempre il suo percorso: «Mi infama gratuitamente scrivendo che ero responsabile delle violenze per colpa e non per dolo». Quell’archiviazione diventa il tarlo che segna ogni passaggio successivo della sua vita e arriva fino a oggi.

Nella richiesta della procura di Genova si mette nero su bianco che stazionava sempre nella caserma San Giuliano (dove nessuna violenza è stata commessa) e andava a Bolzaneto raramente e sempre «preannunciato perché scortato nei suoi spostamenti» ed è «verosimile che nel corso di queste visite (a Bolzaneto, ndr) non siano stati posti in essere alla presenza del magistrato singoli e specifici atti di violenza ai danni degli arrestati». Ma non basta a salvare il suo onore. Il Csm rallenta e poi blocca la sua carriera. Sabella presenta una memoria, evidenzia le anomalie nell’archiviazione, chiede di essere ascoltato, ma niente, ha le carte “sporcate” per quella formula sibillina nel provvedimento di archiviazione: colpa e non dolo. Poi scopre che la sua memoria spedita al Csm è sparita dal fascicolo.

A quel punto, con le carte scomparse, Sabella protesta. E mentre protesta alcuni giornali pubblicano la notizia («Diffusa da ambienti del Consiglio superiore»), che è candidato dalla destra alle politiche. I titoli sono tutti uguali: “Il ritorno del boia di Bolzaneto”. La notizia è una bufala. Vera, invece, è un’altra notizia che riporta il Corriere della Sera: il suo nome è nei dossier del Sismi di Pio Pompa, legato a personaggi della security di Telecom, insieme ad altri magistrati di Palermo, ma accanto al nome Sabella c’è l’annotazione “Ge”, Genova. Il sospetto che ha Sabella: «Io sono stato a Genova solo nei giorni del G8, usavo schede Telecom. E qualcuno ha cancellato i tabulati che mi scagionavano totalmente dai fatti di Bolzaneto».

L’ipoteca mannaia

Ma non è finita. Il provvedimento d’archiviazione incastra Sabella in un fascicolo contabile, la tesi è che il magistrato abbia provocato un danno erariale allo stato italiano “per non aver vigilato”. In primo grado viene condannato a pagare un milione e 132mila euro. Poi, nel marzo 2019, gli viene notificato un «avviso di liquidazione» dall’agenzia delle entrate di Palermo con il quale gli chiedono il pagamento di 22mila euro per l’iscrizione di una ipoteca giudiziale. Così scopre che i suoi beni, tutti, soni stati ipotecati. «È la prima volta nella storia che il ministero iscrive ipoteca su una sentenza di responsabilità sussidiaria, non eseguibile ed è la prima volta nella storia che l’agenzia delle entrate chiede al debitore di anticipare le spese di iscrizione dell’ipoteca. Perché solo a me?», si chiede Sabella. In appello il danno si riduce a 56mila euro. Ma oltre il balletto delle cifre c’è una nuova sorpresa.

Nella sentenza di appello, infatti, viene riportata una frase pronunciata da Sabella, anni prima, davanti al comitato parlamentare, ma mancano giusto tre righe. Cancellate. Ricostruisce il magistrato: «Io mi ero lamentato perché non mi avevano mai ascoltato, nonostante fossi il solo ad avere rinunciato alla prescrizione e nonostante mi fossi associato all’opposizione all’archiviazione. La corte, però, ritiene non necessario farmi difendere perché a loro basta la mia audizione in comitato parlamentare in cui, però, parlavo a nome del Dap». La frase cancellata è questa: «Dico noi ma sto parlando di chi poi realmente aveva la responsabilità dell’ordine del luogo». Una frase che cambia radicalmente la sostanza. «Se togli quelle tre righe l’unico responsabile divento io e risulto così a conoscenza dei fatti mentre si verificano; se riporti, invece, quelle tre righe è chiaro che altri erano responsabili per Bolzaneto e che io ho saputo quello che realmente avveniva lì solo successivamente».

Restano altre due anomalie, vissute come una rappresaglia da Alfonso Sabella. La prima è che, quei 56mila euro, Sabella sostiene di non doverli nemmeno pagare perché «quella forma di responsabilità sussidiaria è un’invenzione giuridica della corte dei conti in concreto ineseguibile». Ma c’è di più.

Anche nel caso fosse eseguibile, non si spiega perché il ministero mantenga ancora l’ipoteca su tutto il suo patrimonio come se fosse ancora in piedi la sentenza di primo grado con il danno calcolato in oltre un milione di euro. Il ministero dispone in cassa della liquidazione del magistrato, di gran lunga superiore ai 56mila euro richiesti, eppure i suoi beni sono ancora tutti ipotecati. Così Sabella si è rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Così Sabella è “contro l’Italia”, per non affogare nella giustizia di chi non ha le spalle coperte.

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