Il caso di Autostrade per l’Italia (Aspi), destinato a esplodere come grande scandalo nazionale non appena si sarà abbassata la polvere della campagna elettorale, è talmente complicato che per capirlo occorre sezionarlo su tre livelli. Ci sono il livello politico (che è quello più assurdo), il livello giudiziario (che è quello meno interessante) e il livello dei fatti concreti (che è quello più preoccupante). Prima di vedere in dettaglio come si intrecciano le tre dimensioni, fissiamo i fatti inopinabili.

Il 14 agosto 2018 crolla a Genova il ponte autostradale sul fiume Polcevera, detto ponte Morandi dal nome dell’ingegnere che l’aveva progettato. Muoiono 43 persone.

Due giorni dopo il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli apre la procedura per la revoca della concessione autostradale di Aspi, che vale oltre la metà della rete italiana, per grave inadempimento. Nell’agosto 2019 cade il governo Conte gialloverde (cosiddetta crisi del Papeete) e nasce il Conte giallorosso. Alle Infrastrutture viene fatto fuori Toninelli e arriva la Pd Paola De Micheli. All’Economia fuori l’economista Giovanni Tria e dentro il Pd Roberto Gualtieri. Dopo mesi di aspre discussioni, all’alba del 15 luglio 2020 a palazzo Chigi viene firmato una specie di armistizio tra il governo e Atlantia, la holding proprietaria di Aspi a sua volta controllata dalla famiglia Benetton.

Il governo rinuncia alla revoca se Aspi si impegna a sborsare 3,4 miliardi per manutenzioni straordinarie non finanziate dai pedaggi, e se Atlantia si impegna a cedere allo stato il controllo di Aspi. Il governo presenta l’accordo come l’umiliazione finale dei Benetton, costretti a subire la nazionalizzazione di Aspi, descritta come una sorta di confisca. In realtà nell’accordo c’è scritto che la vendita di Aspi sarà fatta a un prezzo concordato tra le parti. E nel giro di pochi giorni si capisce che De Micheli e Gualtieri, insieme all’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti (Cdp) Fabrizio Palermo, hanno deciso che sarà Cdp a comprare Aspi in società con i due fondi internazionali Blackstone e Macquarie. L’effettivo ruolo di Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella decisione, leader all’epoca in condominio del Movimento 5 stelle, rimane avvolto nella nebbia di parole vaghe, come è abituale per i due.

Il governo Draghi

Dario Scannapieco (LaPresse)

A febbraio 2021 cade il governo Conte e nasce il governo Draghi che eredita il dossier e realizza effettivamente l’operazione. Dal punto di vista degli storici quello che oggi si palesa come un immondo pasticcio è stato concepito da Conte, De Micheli, Gualtieri e Di Maio. Dal punto di vista amministrativo l’immondo pasticcio è stato perfezionato e compiuto dai loro successori, nell’ordine Mario Draghi, Enrico Giovannini e Daniele Franco, che non hanno cambiato di una virgola il canovaccio ricevuto in eredità dal governo precedente. Il 12 giugno 2021 viene firmato il contratto preliminare per la vendita di Aspi da Atlantia a Cdp e soci.

Il 14 ottobre seguente viene firmato l’accordo transattivo tra il concedente ministero delle Infrastrutture e la concessionaria Aspi che chiude la procedura di revoca. Il 21 dicembre 2021 si riunisce il Cipess, l’ex Cipe, comitato interministeriale per la programmazione economica, che adesso ha le “s” perché si occupa anche di sviluppo sostenibile (ma non di resilienza).

La riunione del Cipess, vista la delicatezza della materia, viene presieduta da Mario Draghi in persona, anziché dal fidato sottosegretario Bruno Tabacci come di regola, e approva il nuovo piano economico finanziario (Pef) di Aspi che determina investimenti e tariffe fino al 2038. In pratica determina la redditività di Aspi, e quindi il suo valore. Notate bene: avendo fissato il prezzo di vendita il 12 giugno, il 21 dicembre il governo è costretto ad approvare un Pef scritto apposta per rendere congruo il prezzo piuttosto alto concordato: infatti la validità del contratto di vendita era subordinata all’approvazione del Pef.

A seguito della delibera Cipess del 21 dicembre 2021 si dipanano tutti i conseguenti passaggi burocratici, tra cui l’immancabile visto della Corte dei conti, fino a che il 5 maggio 2022 il successore di Palermo, Dario Scannapieco, benedice il cosiddetto closing: si firmano i contratti definitivi e parte un bonifico da 8,2 miliardi destinato ad Atlantia per l’88,06 per cento delle azioni Aspi.

Il livello politico

Luciando D'Alfonso (Foto Vincenzo Livieri - LaPresse)

Il livello politico della storia è assurdo perché l’iniziativa di portare la vicenda all’attenzione della magistratura penale è targata Pd. Infatti è un autorevole esponente del partito pilastro sia del Conte giallorosso sia del Draghi dell’Agenda a rivolgersi alla procura della Repubblica di Roma per chiederle di indagare su una sfilza di gravi reati a suo dire commessi non dai ministri ma dagli alti burocrati. Si tratta di Luciano D’Alfonso, ex sindaco di Pescara ed ex presidente della regione Abruzzo.

I suoi esposti alla procura di Roma li ha firmati come presidente della commissione Finanze del Senato nell’esercizio della sua funzione istituzionale. Insomma non è un passante, e il segretario del Pd Enrico Letta, nonostante i missili lanciati contro Draghi e Conte, l’ha candidato come capolista per la Camera in Abruzzo. Il Pd non ha preso le distanze dalle accuse di D’Alfonso, che pure risalgono a oltre un anno fa.

Per motivi opposti colpisce il silenzio di Giorgia Meloni che, fino a quando la crisi del governo Draghi non le ha spalancato le porte di un trionfo elettorale, dall’opposizione non perdeva occasione di tuonare contro l’operazione Aspi con argomenti analoghi a quelli di D’Alfonso. A maggio 2021, alla immediata vigilia della firma del contratto di compravendita di Aspi, chiedeva perentoriamente di bloccare l’operazione fino a che la gestione Benetton non avesse rimesso in sesto la rete autostradale: denunciava «il rischio che Cdp si sta accollando, esponendo lo stato e i risparmi postali degli italiani alle conseguenze di potenziali cedimenti di opere infrastrutturali, con le prevedibili conseguenze di perdite di vite e di conseguenti cause di rivalsa delle parti offese.

Non si può rilevare una infrastruttura stradale con questi punti di debolezza che richiedono costosi interventi di estrema urgenza. Vi sono tutti gli estremi per reclamare il ripristino di adeguate condizioni di sicurezza della rete autostradale prima del passaggio di proprietà a favore del consorzio guidato da Cdp». Adesso Meloni ha designato Draghi come lord protettore del suo prossimo governo e parla di Peppa Pig anziché di autostrade.

Il maggiore imbarazzo politico lo creano però le voci di corridoio riguardanti i rapporti di storica amicizia tra D’Alfonso e il suo concittadino Carlo Toto, il costruttore a cui Draghi ha revocato due mesi fa la concessione della Roma-Pescara-L’Aquila (A24-A25). Gli spin doctor di Palazzo Chigi accreditano l’ipotesi che le denunce di D’Alfonso siano una ritorsione per la sanzione della revoca che ha colpito l’amico Toto e risparmiato Aspi. È vero però che gli esposti di D’Alfonso precedono di un anno la revoca a Toto, per cui il rapporto causale tra i due eventi potrebbe logicamente ribaltarsi. Ma questa controversia va registrata solo per dovere di cronaca, visto che interessa solo i nervi scossi di alcuni soggetti interessati e di svagati dietrologi convinti che il problema stia lì.

Il livello giudiziario

D’Alfonso segnala al sostituto procuratore Gennaro Varone (lo stesso che nel 2008 ne chiese e ottenne l’arresto per fatti corruttivi che coinvolgevano anche Toto e per i quali i due furono infine assolti) una serie di possibili reati.

L’aspetto penale è interessante per i giuristi ma non saranno i magistrati a rivelarci chissà che cosa. I reati ipotizzati sono riferiti a fatti noti, documentati, alla luce del sole. I magistrati non hanno molto da scoprire, a loro spetta solo la cosiddetta “qualificazione giuridica del fatto”, cioè decidere se quei comportamenti noti si configurano o no come reato.

D’Alfonso ipotizza la truffa ai danni dello stato (articolo 640 bis del codice civile) perché indeterminati dirigenti dello stato avrebbero raggirato la Corte dei conti fornendole informazioni false per farle approvare la complessa operazione; l’abuso d’ufficio (articolo 323 codice penale), considerando contro l’interesse dello stato la decisione di non revocare la concessione ad Aspi; poi scatterebbe un terzo reato, la turbativa d’asta (353 e 353 bis c.p.), per aver indotto Atlantia a vendere Aspi direttamente a Cdp, che a sua volta ha preso in cordata con sé Blackstone e Macquarie in modo discrezionale, senza alcuna forma di selezione pubblica.

Qui c’è il punto decisivo, giuridicamente molto complesso. I governi Conte e Draghi si sono mossi come se il cambio di proprietà della concessionaria fosse irrilevante rispetto alla continuità del rapporto concessorio. La concessionaria è Aspi e rimane Aspi, se Atlantia ne cede la proprietà ad altri non cambia niente.

Per D’Alfonso la cosa non è così piana. Per esempio la cessione del controllo di Aspi è dovuta passare per il via libera della Bei (Banca europea degli investimenti), creditrice per 1,2 miliardi di euro di Aspi, per la quale il cambio di controllo della società debitrice comporta una tale trasformazione del rapporto da avere il diritto di autorizzare l’operazione.

Secondo D’Alfonso, considerando anche le modifiche della convenzione intervenute, compreso il nuovo Pef che modifica sostanzialmente i meccanismi della concessione in termini di tariffe e di investimenti dovuti, si tratta di una nuova concessione con nuovi concessionari. Questo avrebbe imposto al governo di riassegnarla con una gara: non averla fatta integra il reato di turbativa d’asta.

Può darsi che queste ipotesi siano il frutto della fantasia giuridica di D’Alfonso, anche se il sostituto procuratore Varone sta vagliando seriamente le ipotesi di reato. Ma anche se la magistratura concludesse che non sono stati commessi reati, rimarrebbero i duri fatti.

Il fatto concreto e documentato è che il governo ha aperto la procedura di revoca della concessione per grave inadempimento e, dopo due anni di studi e pareri giuridici, è arrivato alla conclusione che la revoca comportava dei rischi, soprattutto di contenzioso con Aspi e di indennizzi miliardari da pagare.

Il livello dei duri fatti

Paola De Micheli e Roberto Gualtieri (LaPresse)

Sulla base del parere di un “Gruppo di lavoro interistituzionale” e di quello dell’Avvocatura dello stato, peraltro chiari sul fatto che c’erano tutte le condizioni per la revoca per grave inadempimento (il crollo del ponte senza che fosse centrato da un meteorite ne era la prova ovvia), la ministra delle Infrastrutture De Micheli, spalleggiata da Gualtieri e Di Maio, ha spinto per la transazione esaltando presso il premier Conte gli aspetti critici della revoca. Il 15 luglio 2020 si è fatto l’accordo con Atlantia secondo cui, anziché la revoca, ci sarebbe stata la perdita di controllo di Aspi accompagnata da altri sacrifici, come l’impegno a spendere 3,4 miliardi in manutenzioni straordinarie.

Da quel momento si è aperta una trattativa opaca, gestita dai ministeri competenti e da Cdp come se fosse un affare privato. L’unica cosa oggi chiara è che già quella mattina del 15 luglio, quando ancora non era chiuso l’accordo tra governo e Atlantia, il Sole 24 Ore annunciava che i fondi Blackstone e Macquarie erano in campo per aggiudicarsi il lucroso affare. Strano, ancora il governo non aveva scelto tra le varie modalità ipotizzate per il passaggio di controllo di Aspi. Ma evidentemente, colà dove si puote ciò che si vuole, era tutto già deciso.

All’esito della trattativa ci sono due documenti, entrambi firmati dal governo Draghi: la compravendita di Aspi e l’accordo transattivo. I termini della prima rimangono segreti, è un affare privato (anche se i soldi sono pubblici) tra Atlantia da una parte e Cdp e i fondi Blackstone e Macquarie dall’altra. Come pure rimangono segreti i patti parasociali che definiscono i poteri dei due fondi su Aspi a dispetto che il pacchetto di controllo appartenga alla statale Cdp. L’accordo transattivo è invece consultabile ed è molto interessante. A pagina 8, al punto 41 delle premesse, sono elencati i “profili di criticità” della revoca (“risoluzione del rapporto concessorio”) che inducono il governo alla transazione. Però non si dichiarano i profili di criticità della transazione stessa, che non sapremo mai, perché il governo Conte e il governo Draghi non hanno mai messo a confronto in un documento ufficiale i pro e i contro delle due soluzioni.

Per esempio, D’Alfonso sostiene che la transazione (con l’acquisto di Aspi e l’accollo del debito e dell’impegno a spendere 3,4 miliardi per manutenzioni straordinarie) è costata allo stato 8 miliardi in più del costo massimo ipotizzabile con la revoca.

Ma la cosa davvero singolare è che nella transazione, con cui rinuncia alla revoca per grave inadempimento (43 morti), lo stato elenca solennemente tutti i casini in cui si infilerebbe con la revoca stessa. Quindi il governo firma una transazione in cui premette che non ha altra scelta.

E fin qui potrebbe anche andare, una transazione è una transazione. Purtroppo non è così. Perché a pagina 20 dell’accordo transattivo, all’articolo 10, c’è scritto che l’accordo stesso sarà valido solo dopo l’approvazione del nuovo piano finanziario (Pef), frutto di accordo tra governo e concessionaria, e dopo la vendita di Aspi a Cdp, Blackstone e Macquarie.

A sua volta però la vendita è subordinata alla firma dell’accordo transattivo. Se vi gira la testa non vi preoccupate: neppure la Corte dei conti ha capito il concetto di due contratti separati che sono, reciprocamente, uno condizione di validità dell’altro. I magistrati contabili hanno chiesto spiegazioni e le hanno avute in una forma che D’Alfonso giudica un raggiro ai sensi dell’articolo 640 del codice penale.

È difficile capire il senso giuridico del pasticcio che è stato concepito. Il governo apre una procedura amministrativa per grave inadempimento che prevede come sanzione la revoca della concessione e poi innesta dentro la procedura amministrativa (che poteva chiudersi solo con la revoca, oppure con la presa d’atto che il grave inadempimento non c’era stato) una transazione privatistica, come se si trattasse di una causa civile, oltretutto con un soggetto estraneo alla procedura, la finanziaria Atlantia.

C’è da stropicciarsi gli occhi: una procedura amministrativa per grave inadempimento (43 morti) che prevede come sanzione la revoca della concessione si è risolta con la decisione della holding proprietaria della concessionaria “sotto processo” (Aspi) di accettare, come sanzione, il prezzo che lo stato le offriva per la concessionaria stessa. Mentre noi ci stropicciamo gli occhi qualcuno ha stropicciato leggi e codici.

Serve guardare i dettagli. Lo stato firma un accordo transattivo in cui dice in sostanza: fermo restando che se non va in porto questa transazione mi tocca fare la revoca che qui dichiaro solennemente che per me sarebbe un disastro, preciso che questa transazione medesima è valida solo se va in porto la vendita di Aspi a Cdp e soci, quindi Atlantia sappia che, se si impunta sul prezzo e non mi firma la vendita, io dovrò procedere con la revoca e sarò rovinato. Con queste premesse, indovinate chi ha deciso il prezzo di Aspi? Avete indovinato, il venditore, cioè Atlantia dei Benetton.

Già, ma perché Blackstone e Macquarie devono accettare di pagare un prezzo (9,3 miliardi per l’intera società) che un anno prima avevano dichiarato esoso offrendo solo 7 miliardi? La spiegazione è semplice: nel frattempo è stato approvato il nuovo Pef che ha garantito ad Aspi fino al 2038 tariffe stellari e una dinamica degli investimenti e delle manutenzioni analoga a quella della gestione Benetton. Insomma, Cdp (lo stato) e i suoi soci scelti a gusto del management hanno accettato di strapagare Aspi grazie alla garanzia che resterà un bancomat, una vacca da mungere, dove gli automobilisti faranno la parte della vacca e i fondi Blackstone e Macquarie faranno i mungitori con la nobile Cassa depositi e prestiti (fondata nel 1850 dal presidente del Consiglio del Regno di Sardegna Massimo D’Azeglio) che chissà perché ha deciso di fare il palo.

Avidità di stato

I risultati si vedono. Il 5 maggio scorso Cdp, Blackstone e Macquarie hanno versato 8,2 miliardi per l’88 per cento delle azioni Aspi, e dopo soli due mesi si sono fatti versare il dividendo riferito agli interi utili del 2021, 682 milioni di euro, pari al 7,5 per cento dell’investimento appena fatto.

Nonostante il Covid e il crollo del Morandi, Aspi è ancora così ricca da poter inondare di dividendi i suoi azionisti (anche se ad aprile la gestione degli avidi Benetton aveva deciso per prudenza e decenza di tenere gli utili in cassa). Trovate un altro investimento che paga una cedola del 7,5 per cento dopo soli due mesi. Se non lo trovate, pensate che questo bengodi finanziario lo regala ai nuovi azionisti la concessionaria autostradale che solo quattro anni fa ha provocato la morte di 43 persone con il crollo del ponte Morandi e che i governi Conte e Draghi ci hanno raccontato che andava nazionalizzata in nome dell’interesse pubblico e della sicurezza.

C’era addirittura la leggenda che il governo avrebbe imposto una drastica riduzione delle tariffe. Invece le hanno alzate, per fare contenti in un colpo solo i fondi stranieri e i Benetton. Conte e Draghi hanno già cominciato a rimpallarsi le colpe, secondo la nobile tradizione nazionale, mentre i magistrati cercano di capirci qualcosa. Una cosa è certa: reati o non reati, le autostrade erano una vergogna sotto i Benetton e restano una vergogna, forse peggiore, sotto lo stato.

 

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