Roger Penrose, vincitore del premio Nobel per la fisica nel 2020, a ottantanove anni, divenne famoso nel 1958, a ventisette, quando pubblicò insieme al padre, lo psicologo Lionel, un articolo sugli oggetti impossibili. Il più noto era quello che oggi si chiama triangolo di Penrose, in loro onore, anche se in seguito si scoprì che in realtà era già stato scoperto e sfruttato nel 1934 dall’artista svedese Oscar Reutersvärd. Si tratta di un triangolo solido disegnato in prospettiva in modo da dar l’impressione di avere tre angoli retti, contrariamente al fatto che la somma degli angoli di un triangolo euclideo è uguale a due angoli retti.

Da un punto di vista scolastico, il triangolo è semplicemente disegnato in modo sbagliato: gli angoli sono rappresentati correttamente, uno a uno, ma vengono collegati in maniera impossibile, tutti insieme.

Simili sviste accadono di solito quando non si è ancora imparata bene la tecnica della prospettiva, e a scuola meriterebbero un’insufficienza o una bocciatura. Ma gli artisti che sanno cosa fanno hanno spesso usato trucchi del genere per ottenere immagini enigmatiche e sconcertanti: primo fra tutti l’olandese Maurits Cornelis Escher, le cui opere avevano attirato l’attenzione del giovane Penrose al Congresso internazionale di matematica di Amsterdam nel 1954, dov’era stata organizzata una mostra delle sue opere.

I Penrose gli mandarono dunque il loro articolo, e un paio d’anni dopo egli usò in maniera spettacolare tre triangoli impossibili per rappresentare una paradossale Cascata (1961), in cui l’acqua dà l’impressione di salire in alto pur scorrendo in piano, in una specie di moto perpetuo che si scontra con molte leggi della fisica. Altrettanto paradossale era anche il suo Salire e scendere (1960), che si ispirava invece a un’altra delle figure impossibili dell’articolo del 1958: la scala di Penrose, in cui quattro rampe erano rappresentate correttamente, una a una, ma collegate in maniera impossibile, tutte insieme, dando l’impressione di un percorso infinitamente ascendente o discendente. Un’illusione ottica simile la davano già le spirali ruotanti delle insegne dei barbieri di una volta, che sembrano anch’esse salire o scendere all’infinito.

Fama di riflesso

Nel caso della scala il trucco stava nel disegnare in prospettiva scorretta un oggetto perfettamente possibile, esemplificato da quattro libri disposti a quadrato, in modo tale che ciascuno si appoggi sul successivo. Un insetto che scivolasse sui libri in circolo, in senso orario o antiorario, avrebbe l’impressione di continuare a scendere o salire all’infinito su una scala dai gradini in piano: in realtà, scenderebbe repentinamente lungo le coste, ma risalirebbe gradualmente lungo le copertine dei libri, o viceversa.

Le due litografie di Escher costituirono, insieme a Belvedere (1958), un trittico che accese i riflettori del grande pubblico sul disegnatore olandese, proiettandolo verso la fama, e la sua luce illuminò di riflesso anche i due Penrose, che gli avevano fornito l’ispirazione. Prima di allora Escher si era concentrato soprattutto su opere più astratte e meno popolari, che esploravano innumerevoli variazioni delle pavimentazioni di un piano con piastrelle di varia forma: l’ispirazione questa volta gli era venuta dal fratello Berend, che in quanto geologo si interessava dell’analogo problema cristallografico nello spazio, e da una visita all’Alambra di Granada, dove l’arte moresca aveva raggiunto il proprio apice in questo genere di pavimentazioni.

Tutte le piastrellazioni fino ad allora realizzate, dagli Arabi a Escher, avevano due particolarità: da un lato, erano periodiche, e dall’altro, possedevano simmetrie triangolari, quadrate o esagonali, ma non pentagonali. Nel 1974 Penrose rivoluzionò il campo, introducendo nell’articolo Due tipi fondamentali di distribuzione statistica due tipi di piastrelle che permettono di pavimentare il piano soltanto in maniera non periodica, ed esibiscono una simmetria pentagonale.

Le piastrellazioni

Le piastrellazioni di Penrose vennero prodotte e commercializzate, e finirono persino sui rotoli di carta igienica, ma dopo che la Kleenex fu denunciata dal matematico per appropriazione indebita si scoprì che, semmai, i diritti si sarebbero dovuti pagare agli islamici che le avevano già usate mezzo millennio prima, dall’Uzbekistan alla Turchia.

Un’inaspettata e più asettica applicazione fu invece trovata nel 1984, quando Daniel Schechtman si accorse che la struttura molecolare di una lega di alluminio e manganese esibiva la stessa struttura: si trattava del primo esempio di un quasi-cristallo, che valse al cristallografo israeliano il premio Nobel per la chimica nel 2011.

Nel frattempo Penrose aveva dato il suo maggior contributo alla fisica nel 1965, dimostrando nell’articolo Collasso gravitazionale e singolarità spazio-temporali che l’esistenza dei buchi neri non soltanto è possibile in teoria, come già si sapeva fin dal 1916, ma è estremamente probabile in pratica, come invece dubitavano in molti, a partire da Einstein. Fino ad allora lo studio dell’argomento veniva infatti effettuato con i metodi della complicata geometria tensoriale, e la dimostrazione della possibile esistenza dei buchi neri richiedeva ipotesi molto particolari e improbabili sull’universo, mentre Penrose fu il primo a usare i flessibili strumenti della topologia, e ad applicarli sotto ipotesi molto più generali e realistiche.

In ogni caso, all’epoca i buchi neri appartenevano ancora a un oscuro campo di ricerca nell’ambito della teoria della relatività generale, anche se l’idea di un corpo così massiccio da impedire persino alla luce di sfuggire al suo campo gravitazionale era già stata anticipata nel 1784 da John Michell, e addirittura prefigurata duemila anni fa da Lucrezio nel De rerum natura.

Michell aveva parlato di una «stella nera», ma Penrose e gli altri fisici continuavano prosaicamente a usare il termine «singolarità spazio-temporali»: solo nel 1967 John Wheeler introdusse la poetica espressione «buco nero», molto più adatta a catturare l’attenzione del pubblico.

I buchi neri

A gettargli l’esca adatta fu Stephen Hawking nel 1988, con il libro Dal Big Bang ai buchi neri, e il pubblico puntualmente abboccò, attratto da due ingredienti essenziali della ricetta. Da un lato, infatti, la vicenda personale dell’autore, colpito da una grave malattia degenerativa, era degna di un film, che venne poi girato nel 2014 con il titolo La teoria del tutto. Dall’altro lato, la trattazione dell’argomento era abbastanza ammiccante da solleticare l’ego del lettore, dandogli l’illusione di essere così intelligente da poter capire una teoria esoterica, mentre Hawking si limitava a offrirgli narrazioni presentate come fisica e congetture spacciate come fatti. Penrose fu spiazzato dalla fama travolgente raggiunta da quello che in fondo era un suo collaboratore, ormai proclamato dai giornalisti come l’erede di Newton e Einstein, e venerato dai fan come un genio universale, grazie anche a una martellante campagna mediatica sapientemente alimentata. Penrose decise di correre ai ripari, e nel 1989 scrisse a sua volta La mente nuova dell’imperatore: un ottimo testo di divulgazione scientifica, molto più corposo e informativo di quello di Hawking, ma altrettanto astuto e fortunato nel solleticare il ventre molle dei lettori.

Poiché i buchi neri e l’origine dell’universo erano già stati sfruttati da Hawking, a Penrose non rimaneva che l’argomento più ovvio: le strutture cerebrali e l’origine della coscienza, sulle quali si sapeva ancora di meno, e dunque si poteva ipotizzare ancora di più. La sua idea fu di invocare la meccanica quantistica per spiegare i misteri della mente, inserendosi così di diritto nel filone new age inaugurato nel 1975 da Fritjof Capra nel Tao della fisica, ma già prefigurato da Erwin Schrödinger nel 1958 in Mente e materia.

Essendo un ottimo matematico, Penrose si lanciò anche in una spiegazione del teorema di Gödel del 1931, che afferma che in un sistema matematico che dimostra solo verità, esistono affermazioni vere ma non dimostrabili: ad esempio, quella che dice di sé stessa di non essere dimostrabile nel sistema. Se essa fosse dimostrabile, sarebbe infatti vera per l’ipotesi sul sistema, e dunque non dovrebbe essere dimostrabile per ciò che dice. Ma allora dev’essere non dimostrabile, e in tal caso è vera, sempre per ciò che dice.

Essendo però un pessimo logico, Penrose scivolò su un errore banale, già compiuto dal filosofo John Lucas nel 1961 in Menti, macchine e Gödel. L’idea dei due colleghi di Oxford era che, poiché noi sappiamo che l’affermazione di Gödel è vera, ma il sistema matematico in questione non la può dimostrare, noi siamo meglio di quel sistema. E poiché le macchine non sono altro che versioni fisiche dei sistemi matematici, noi siamo meglio delle macchine: dunque, l’intelligenza artificiale è impossibile.

L’errore sta semplicemente nel fatto che, nonostante le apparenze, noi non sappiamo che l’affermazione di Gödel è vera: lo sapremmo se sapessimo che il sistema non dimostra falsità, ma questa verità ipotetica la sa anche il sistema. Quanto alla verità assoluta dell’affermazione di Gödel, invece, non la sappiamo nemmeno noi, perché in genere non sappiamo affatto come dimostrare che un sistema matematico non dimostra falsità.

I logici di mezzo mondo, compreso quello che scrive, cercarono inutilmente di far capire l’inghippo a Penrose, che per tutta risposta dedicò nel 1994 il suo intero libro Ombre della mente a rivendicare testardamente le sue non-ragioni. Il che gli fece perdere molta della stima dei suoi colleghi logici, ma ovviamente non intaccò il valore delle sue applicazioni della matematica alla fisica dei buchi neri, che gli sono valse il premio Nobel qualche giorno fa. Ai suoi ignari lettori, come a quelli di Hawking, non importa invece nulla di chi abbia ragione, perché per loro i due amici e colleghi non sono scienziati, ma guru o santoni: un singolare contrappasso per i due fisici-matematici, che non hanno mai fatto mistero del loro personale ateismo.

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