Una volta alla settimana il pescatore e commerciante di pesce Paulo Duque sale in macchina e corre all’aeroporto internazionale di Rio de Janeiro per ritirare casse di polistirolo in arrivo dal Cile, o più raramente dal Canada. Contengono salmone fresco. Scelta curiosa per chi possiede una decina tra barche e pescherecci, che ogni notte escono in alto mare e nelle lagune vicine, e ha in piedi un buon business nella Região dos Lagos, il litorale prossimo a Rio.

Pesce e frutti di mare, tutto fresco di giornata. Quindi il salmone che c’entra? «Niente, ma bisogna averlo», allarga le braccia Duque, una bella pelata bruciata dal sole. Via la pelle, e quel poco di grasso, i filetti finiscono quasi tutti ai delivery di sushi della zona. Costa meno di molti pesci locali. Piace a tutti. Se il pesce venuto dal freddo non lo vende lui, il re dei pescatori di Ponta Negra, il borgo tropicale dove vive e lavora, ci penserà qualcun altro.

Da Manhattan alle periferie dei paesi emergenti, dal più caro ristorante giapponese al sushi più economico, dove per trovarne un pezzetto occorre scavare nel riso, il salmone arriva ormai in ogni angolo del pianeta. Anzi, sotto un certo prezzo l’unica traccia di proteina in un sushi è proprio lui, il già straordinario pesce dalla vita avventurosa tra mari, laghi e fiumi. E che oggi invece finisce persino nel Whiskas per gatti. Come è potuto succedere è un capitolo interessante della globalizzazione: la nascita in un tempo relativamente breve di una food commodity, che arriva ovunque ma nasce solo in una manciata di paesi periferici: Norvegia, Cile, Canada e Scozia concentrano il 96 per cento della produzione. Un business da 20 miliardi di dollari all’anno, cresciuto di 15 volte dal 1990 a oggi e quello che ha tuttora i tassi di espansione più alti dell’intera industria alimentare mondiale. Per quella che era una prelibatezza cara e stagionale fino agli anni Ottanta – il salmone affumicato era un tipico lusso natalizio, o il piatto che prima si svuotava nei buffet – tutto è cambiato.

Se in un paesino qualunque del Brasile o a Milano, entrambi a migliaia di chilometri dall’origine, il pesce arriva oggi al dettaglio a soli 5 euro al chilo ciò significa che il settore è in grado di inondare il mondo, ed è scontato che la domanda continui a crescere. I norvegesi stimano che aumenterà di altre cinque volte da qui al 2050. A meno di un crollo della passione planetaria per il sushi, difficile da immaginare al momento. E pensare che fino agli anni Novanta i giapponesi nemmeno lo consideravano il salmone: sono stati i norvegesi a suggerire loro l’abbinamento con il riso.

Fiordi intensivi

La ragione principale del boom è che il salmone si riproduce benissimo in cattività, consentendo grandi economie di scala. Ormai il 75-80 per cento del consumo mondiale non viene dalla pesca, ma da giganteschi allevamenti intensivi nei fiordi della Norvegia o della Patagonia cilena, posseduti da una manciata di multinazionali. È diventato una specie di pollo dei mari. L’impatto non è paragonabile a quello dell’altra grande componente della sushi economics, il tonno – il quale non si può allevare e quindi è a rischio di estinzione per eccesso di pesca – ma qualche squilibrio questa enorme produzione di salmone lo sta comunque creando. Ultimamente le accuse si sono fatte più circostanziate. Secondo lo studio Dead Loss, a cura della società di consulting Just Economics, l’acquacoltura del salmone ha provocato costi esterni di 41 miliardi di euro dal 2013 al 2019, in gran parte in ricadute sugli ecosistemi coinvolti. Senza un cambiamento di rotta le cose potrebbero aggravarsi.

A volte scappano

Nel luglio del 2018 una notizia dal profondo sud del mondo scosse il settore. Dopo una tempesta di forte intensità, ben 900mila salmoni in fase di crescita fuggirono dalle loro reti per disperdersi nel Pacifico. La colpa quella volta ricadde sui cileni, ma succede abbastanza di frequente anche nella civilissima Norvegia, che ospita il 50 per cento di tutta l’acquacoltura di salmoni del mondo. L’apertura involontaria delle reti è il più curioso dei fattori di squilibrio ambientale, anche se non il più grave. In Cile, dove non esistono salmoni in natura, i fuggitivi possono venir mangiati da altre specie, cosa che avviene anche quando vengono lanciati in acqua esemplari morti (Greenpeace lanciò dure accuse ai cileni per questa pratica nel 2016).

Nell’Atlantico del nord invece gli evasi finiscono per accoppiarsi con i selvatici, creando ibridi. Studi hanno dimostrato che la capacità di sopravvivenza in mare aperto di queste nuove specie sta diminuendo, gli stock in natura si stanno riducendo, così come è crollato il numero dei salmoni che risalgono i fiumi per depositare le uova, come indicherebbe madre natura: secondo un calcolo in Norvegia sono mezzo milione in meno ogni anno rispetto al 1980.

Le altre accuse ai produttori intensivi riguardano l’uso eccessivo di antibiotici (ancora una volta nel mirino soprattutto i cileni, meno controllati) e di pesticidi per combattere la piaga delle pulci acquatiche, che si attaccano alla pelle del salmone e arrivano a ucciderlo. A 50 anni dalla scoperta della possibilità di allevare i salmoni ancora non si è venuti a capo dell’alta mortalità, che può toccare il 10-15 per cento dei pesci persino nelle più evolute “fattorie” scandinave. I salmoni sono tenuti in mare, in grandi gabbie che permettono il ricambio continuo d’acqua, ma l’affollamento è comunque notevole. Ci sono fiordi in Norvegia che ospitano più salmoni di quanto si ritiene sia ancora lo stock naturale di tutto l’Atlantico del nord. Il sistema delle gabbie in mare fa sì che tutti i residui, naturali o chimici, entrino inevitabilmente in contatto con l’ambiente. Si stanno studiando sistemi di allevamento in terra, quindi in laghi artificiali con l’acqua pompata dal mare, ma c’è un problema di costi. La separazione dall’habitat naturale ridurrebbe di molto l’impatto ambientale.

In difesa dell’industria

Accusare tout court l’industria del salmone è ingiusto, oltre che impraticabile. La sua popolarità è un male soltanto per gli inguaribili (e danarosi) snob del cibo solo naturale. La Fao sostiene da tempo che la pratica di allevare pesci è l’unica alternativa allo spopolamento dei mari e alla difficoltà di nutrire una popolazione crescente, soprattutto nei paesi poveri. Indietro non si torna insomma. Le multinazionali del salmone, dati alla mano, ritengono che il loro sia il più efficiente e meno dannoso sistema di produzione di proteine del mondo, e i danni collaterali sono irrisori rispetto a quelli di carne bovina, suina e pollame. Senza contare che lo scarto è assai minore, per chilo di prodotto destinato all’alimentazione umana. C’è però il problema della catena alimentare, non facile da risolvere perché va a toccare altri ecosistemi.

I salmoni nelle gabbie oggi sono nutriti con croccantini a base di pesce, olio di pesce, soia e coloranti (altrimenti la carne sarebbe grigia perché i pesci allevati non mangiano crostacei rossi, come i loro cugini in libertà). Per crescere e riprodursi hanno bisogno di proteine. Per rifornire la grande filiera del salmone, pratiche di pesca predatoria stanno devastando mari lontani. Sempre secondo Dead Loss un quinto della pesca mondiale serve ormai a rifornire l’acquacoltura. Nel caso del salmone occorrono montagne di pesce azzurro e le più grandi riserve del mondo sono al largo dell’Africa occidentale e lungo le coste del Perù. Quest’ultimo è il primo esportatore al mondo di piccole sardine e olio di pesce, il tutto destinato ai croccantini per i salmoni in cattività.

Esiste una alternativa, ed è la solita soia, il vegetale ricco di proteine. Ma se si rifanno i calcoli dei danni a catena non si sa cosa sia peggio, perché tutta la soia impiegata nelle vasche norvegesi, per esempio, arriva dal Brasile. E si sa chi ne ha pagato il prezzo: la foresta amazzonica. Anche la storia del salmone, dunque, arriva a insegnarci una difficile realtà: da qualche parte i costi per dare da mangiare al pianeta devono saltar fuori.

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