Il Master of Wine Charles Curtis si è recentemente chiesto in un articolo su Decanter quante delle attuali politiche agricole relative alla produzione dello Champagne siano green, guardino a una sempre maggiore sostenibilità, o quanto siano soltanto greenwashing. Attività che vengono cioè presentate come ecosostenibili con lo scopo non dichiarato di rendere meno visibile, almeno in termini di comunicazione, il loro impatto negativo. Una strategia nota e diffusa: la volontà di indurre il proprio pubblico di riferimento a credere che un marchio sia impegnato - vale per un’istituzione pubblica come il CIVC, il Comité Interprofessionnel du vin de Champagne, quanto per un qualsiasi altro brand - nella tutela dell'ambiente molto più di quanto non lo sia in realtà.

La sua tesi per diventare Master of Wine, circa vent’anni fa, aveva come oggetto lo sviluppo di standard di gestione ambientale per la produzione di vino, con particolare focus proprio sulla Champagne, la regione. Per questo ha scritto che una delle cose che nel tempo ha imparato è che parlare di qualità ambientale sia più difficile di quanto sembri. Non a caso i produttori certificati come biologici, se non addirittura come biodinamici, tendono a esprimere in tal senso più di una preoccupazione.

Non è una novità: tra le sostanze ammesse dal disciplinare dell’agricoltura biologica quelle che nel vino vengono più usate sono zolfo e rame. Quest’ultimo è un fungicida con un’elevata tossicità, per l’uomo oltre che per i terreni, oltre al fatto che basta una pioggia per annullarne l’azione, obbligando il viticoltore a ripristinare la copertura con un nuovo trattamento. Non solo: la sua applicazione ripetuta ha due effetti collaterali, di cui si parla sempre molto poco: i trattori che fanno su e giù nei vigneti consumano molta benzina, male per l’ambiente, compattando eccessivamente i terreni, male per la vigna.

Nella Champagne l’obiettivo del consorzio è che tutti i produttori abbiano un qualche tipo di certificazione entro il 2030. Ce ne sono di diverse, non solo quella biologica ma anche la HVE, “Haute Valeur Environnementale” o la più ambiziosa VDC, “Viticulture Durable de Champagne”, che obbliga le cantine aderenti a ridurre il loro impatto ambientale sulla base di tre fattori: la biodiversità, la capacità di ridurre il cosiddetto carbon footprint e l’utilizzo dell’acqua.

Fino a poco tempo fa, tuttavia, era esplicito anche l’obiettivo di eliminare completamente l'uso di erbicidi all’interno dei confini della denominazione entro il 2025, traguardo di cui si era persa ogni traccia non senza un certo numero di proteste da parte di un attento gruppo di vigneron. Solo dopo è stato specificato che quello rimane un obiettivo generico, senza scadenza. Da qui l’interrogativo e la consapevolezza sia più facile fare annunci che vanno nella direzione del green che metterli poi realmente in pratica, anche alla luce di un clima che non aiuta, basti pensare alle tantissime piogge che hanno investito buona parte d’Italia nei mesi di maggio e giugno, con tutto quello che questo ha comportato in termini di trattamenti, mai così tanti in viticoltura da molti anni.

In un periodo storico in cui anche in Italia grandi aziende e denominazioni di ogni latitudine fanno a gara nel presentarsi il più green, sostenibili possibile, non è passato inosservato quanto detto da Lamberto Frescobaldi, presidente dell’omonima cantina e dell’Unione Italiana Vini, in occasione di Wine2Wine, l’annuale forum organizzato da Vinitaly: «la sostenibilità è senz’altro una strada fondamentale per il vino italiano, ma a patto che non vi siano compromessi perché è spesso oggetto di greenwashing».

Da una parte c’è il mondo produttivo e la necessità di non parlare di generiche pratiche green, il cui impatto ambientale è spesso non dichiarato in quanto, molto semplicemente, non misurato e/o non misurabile. Dall’altra parte i consumatori, che a sentire sempre in occasione di Wine2Wine Joanna Sciarrino, editor-in-chief del seguitissimo sito Vinepair, sarebbero tutt’altro che interessati a parole quali sostenibilità. Una provocazione fino a un certo punto: dati alla mano ha mostrato quanto gli articoli che affrontano questo argomento siano quelli che attirano meno i lettori. Al contrario, ha detto, si tratta di requisito che i consumatori di oggi danno quasi per scontato. In breve: più azione e meno comunicazione.

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