Da una parte è curioso vedere il più importante magazine del Regno Unito, Decanter, dedicare un lungo approfondimento al futuro del vino attraverso gli occhi della sua redazione americana. Dall’altra si tratta di articolo che si inserisce nella volontà di essere percepito come media sempre più globale, che si rivolge non solo al suo pubblico storico, quello inglese, ma anche e con sempre maggiore attenzione al più ampio mercato del mondo. Le tendenze e le tecnologie in via di sviluppo negli Stati Uniti, riporta il sommario del pezzo uscito all’inizio del mese, guideranno il mondo del vino globale per i prossimi decenni. Una tesi che si traduce nel ruolo sempre più centrale che avranno da qui a breve consumatori con gusti nuovi e tradizioni diverse in un contesto sempre più tecnologico.

«Più di una generazione di bevitori», racconta l’enologo Steve Matthiasson, «è cresciuta e invecchiata con la convinzione il vino facesse bene». Una conseguenza del cosiddetto “paradosso francese”, teoria popolarissima a partire dagli anni Ottanta secondo la quale in una dieta ricca di grassi, a base di burro, il vino avrebbe aiutato a ridurre il tasso di decessi per malattie cardiache. Oggi le cose sono cambiate e l’effetto nocivo dell’alcol è riconosciuto specie da quei bevitori più giovani che nel vino cercano però, non senza creare un altro tipo di paradosso, soprattutto salubrità (oltre che sostenibilità, ambientale e sociale). Un messaggio che ci fa capire quanto quello del vino naturale sia fenomeno tutt’altro che passeggero, capace di coniugare nel suo racconto proprio questi aspetti meglio di qualunque campagna di comunicazione di grandi cantine.

Trasparenza

Aspetti questi, salubrità e sostenibilità, che passano anche da una comunicazione sempre più trasparente da parte di tutta la filiera, produttori in primis. Se l’elenco delle sostanze presenti in un prodotto ha preso piede nel mondo del beauty per poi arrivare a quello del cibo, è ora il turno degli alcolici e in particolare del vino. L’Unione europea con l’obbligo degli ingredienti e dei valori nutrizionali direttamente in etichetta (anche attraverso un QR code) ha aperto una strada da cui sembra difficile tornare indietro tanto che anche negli Stati Uniti il dipartimento competente ha annunciato che entro il prossimo anno studierà la questione, regolando quindi il settore in maniera simile.

«Una volta livellato il campo di gioco con l’elenco degli ingredienti i consumatori possono prendere decisioni ponderate», ha dichiarato Randall Grahm, famosissimo produttore californiano. «Una trasparenza che permette ai consumatori di essere più informati e al tempo stesso ai produttori di essere più attenti e premurosi, in definitiva di fare vini migliori».

Molto si muove anche in campagna specie con l’affermarsi delle sempre più diffuse varietà “ibride”, vitigni che nascono dall’incrocio tra varietà di uva resistenti alle malattie fungine e varietà tradizionali. Per molti una delle armi migliori per affrontare il cambiamento climatico, avendo queste piante bisogno di un numero di trattamenti molto minore rispetto a quelle tradizionali. Varietà che quindi si prestano naturalmente alla produzione di vini biologici e biodinamici. Non solo, la loro grande adattabilità ha dato il via a vini provenienti da zone non storicamente associate alla viticoltura di qualità, democratizzandola: favorendone cioè l’accesso a persone che altrimenti ne sarebbero rimaste escluse.

Il rapporto diretto

Tutto questo in un contesto che vede sempre più centrale il rapporto diretto tra consumatore e produttore. Dice il famoso enologo Thomas Rivers Brown: «Dati i costi di produzione del vino e di gestione di una cantina è necessario che le vendite “direct to consumer” garantiscano ricavi adeguati». Dalle newsletter ai wine club, fino al coinvolgimento di influencer che diventano dei veri e propri brand ambassador: la vendita di una bottiglia, o di una cassa, è destinata a essere sempre più parte di un processo fatto anche di educazione intorno alla cultura del vino. 

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