Umiliati e obesi. Così per lungo tempo, sono stati visti e trattati i cultori dei cibi grassi: presunti autolesionisti o perlomeno ignoranti che non sanno a quali conseguenze si espongono, consumando pasti ad alto tasso di colesterolo e trigliceridi. O peggio ancora, incontinenti che davanti a un piatto di ciccioli o a un tiramisù cedono a un peccato di gola ormai inaccettabile non in termini etici, bensì numerici: troppe calorie.

Oggi che per i connoisseur il cibo si assaggia, ma non si mangia, e il piacere appare slegato dal cibarsi, nelle cucine vigono tabù impliciti, divieti che distinguono tra ciò che è gustoso, ovvero godurioso, e ciò che ha gusto, cioè che possiede raffinatezza, decretando che pietanze lussuriose possono esistere solo come vestigia di un passato di bocca buona, segnato da incidenti incresciosi come le tagliatelle alla panna e salmone e le pennette alla vodka. Sono, insomma, esperienze datate come il pollo con la panna, le scaloppine con la panna acida o il montebianco elencati ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi: ricette che è bene conoscere per cultura generale, ma che adesso risultano improponibili.

Eppure, piano piano, i grassi (non nel senso di persone, che questi quando mai) sono ritornati in auge, anche a sproposito, come nel caso della dieta chetogenica, detta “keto”, basata su una bassa assunzione di carboidrati e un alto consumo di grassi, fortemente criticata dai nutrizionisti. 

Il grande ritorno

«La riscoperta di grassi animali rientra in un consumo di nicchia. Ma è vero che in generale tutte le mode passano di moda, e vengono sostituite da quelle opposte. Prima c’era la paura di ingrassare; ora prevale l’interesse per il buon cibo e la ricerca dell’identità locale», constata Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica nell’università di Palermo e autore di Gustoso e saporito. Introduzione al discorso gastronomico (Bompiani).  Non a caso quasi in ogni ristorante fine dining il rituale prevede – non necessariamente a inizio pasto - una portata costituita da pane di vario tipo, con burro (od olio) in edizione limitata. Questo cambio di orientamento, però, ha richiesto tempo e si è svolto in tappe successive, a cominciare dal 2015, quando una serie di studi scientifici ha smentito il legame tra grassi animali e vari malanni, dall’obesità infantile all’infarto.

Un anno prima ha fatto scalpore The Big Fat Surprise, il saggio con cui la giornalista americana Nina Teicholz ha sostenuto che le diete a basso contenuto di grassi abbiano determinato un’epidemia di obesità in tutto il mondo, poiché la riduzione lipidica è corrisposta a un aumento di zuccheri e carboidrati. Da allora il recupero del grasso è emerso come un fenomeno guidato dall’alto, ossia da chef blasonati e da clienti benestanti: perché, come spiega Elizabeth Currid Halkett, accademica e autrice di The Sum of Small Things: A Theory of the Aspirational Class, il “consumo non vistoso” dei ricchi presuppone, oltre che un capitale vero e proprio, un capitale intellettuale.

Quiet luxury

E così il quiet luxury gastronomico, che inevitabilmente include anche cibo biologico e a km zero, recupera alimenti proibiti, come il burro, il lardo, il bacon e la panna, per segnalare non una disponibilità economica, bensì una conoscenza nutrizionale superiore alla media. In questa linea di “distinzione” dalla massa si spiegano, per esempio, l’apprezzamento della carne frollata in cella (un processo durante il quale la carne subisce ossidazione, cioè irrancidimento, dei suoi grassi, che la rendono più aromatica) o addirittura fat aged (un affinamento con una copertura di grasso di maiale, di bovino o nel burro). O si capisce la moda globale della wagyu, un tipo di manzo giapponese con strati visibili di grasso intramuscolare (che danno luogo alla cosiddetta marezzatura) e dal prezzo impegnativo.

E mentre la maggioranza della classe media culturalmente è ancora ferma alla necessità di ridurre la carne rossa, demonizzata dall’Oms, chi può pagarsi ritiri detox e cibo altrettanto costoso si concede volentieri frollature e manzo giapponese, il cui valore di mercato, secondo un recente rapporto di Technavio Research, è destinato a crescere globalmente per 2,4 miliardi di dollari, con un +6,15 per cento, di qui al 2025.

Burro riabilitato

La nouvelle vague lipidica non finisce qui: «Uno dei più grandi ritorni culinari dell’ultimo decennio è stata la riabilitazione del burro nella ristorazione», ha scritto qualche mese fa il Restaurant Business magazine, segnalando una crescita del bacon e un consumo di burro in Usa salito del 29 per cento nell’ultimo decennio, «a dispetto di una cattiva pubblicità e di una cattiva scienza che ostracizzavano i prodotti lattiero-caseari per esaltare alternative come la margarina» prosegue il testo. Anche in questo caso, il recupero è stato diretto da alcuni membri delle élites, come l’osannato chef Heston Blumenthal, la cui cucina sperimentale già 20 anni fa si è orientata verso una rivalutazione dei singoli ingredienti lontana dalla gastronomia molecolare degli anni Novanta.

«È stato al The Fat Duck che l’ho notato per la prima volta», ha raccontato Jay Rayner, critico gastronomico del quotidiano inglese The Observer. «C’era un burro di latte di capra, fatto a mano con un pronunciato gusto di formaggio. Poi, nel 2006, Stephen Harris al The Sportsman nel Kent ha mostrato come faceva il burro ricavandolo dal latte locale, aromatizzandolo con il sale ricavato bollendo l’acqua di mare. Da quel momento il burro è diventato una mania».

Bella la Crema, un produttore di burro artigianale con sede in Colorado, ha attirato l’attenzione internazionale offrendo un’antologia di burri biologici, ricavati da mucche nutrite solo con erba e impacchettati a mano con gusti che vanno dal Giardino di Monet (arricchito di lavanda, vaniglia, petali di rosa e noce moscata) al best seller, Holliday’s bourbon butter, un omaggio al pistolero Doc Holliday, con sentori di melassa, vaniglia, acero, chiodi di garofano, cannella e bourbon. Contemporaneamente, non più soddisfatti delle confezioni industriali, i top ristoranti inglesi e americani hanno iniziato a cercare approvvigionamenti artigianali, facendo dell’abbinata pane e burro «il nuovo amuse bouche», come ha decretato il quotidiano The Guardian, ovvero l’antipasto che da solo prefigura la filosofia della cucina.

La casistica è ampia: si va da Tom Simmons, titolare di un ristorante di lusso sul londinese Tower bridge, che ha rimpiazzato il leggendario burro ai funghi con una versione al porro cosparso di cenere affumicata di porri, al Dirty Habit di Washington DC dove il Creekstone Farm Prime Aged Ribeye (una bistecca di lusso) è servito con un ricercato burro di midollo osseo affumicato. Ma la qualità ha un prezzo. Da Dedalus, ristorante di Burlington, Vermont, una porzione di burro costa 12 dollari perché proviene dall’Olimpo delle fattorie: Animal farm butter, già fornitore esclusivo di Thomas Keller, l’unico americano ad avere tre stelle Michelin in entrambi i suoi ristoranti, cioé Per se e The French laundry. Il discusso chef Dan Barber, già chiamato “il profeta del suolo”, negli ultimi 10 anni ha servito nel suo Blue Hill di New York, dove si pagano più di 300 dollari a testa, Single Udder Butter, un piatto che presenta uno schieramento di burri serviti l’uno accanto all’altro per mostrare come animali della stessa fattoria producano creme di colori e sapori diversi, a seconda della loro età, preferenze dietetiche e della stagione.

Un trend social

Il fatto è che per i consumatori più consapevoli il burro evoca un legame tangibile con la campagna, simboleggiando un cibo autentico, poco trasformato, inscindibile dal benessere degli animali. Tuttavia, chi sui social asseconda la mania del burro senza snobbarlo se è industriale o non coglie questo legame bucolico o cerca nel panetto altri piaceri perduti: come la gioia del piatto condiviso, che sembrava un miraggio solo due anni fa, o l’invito a mostrare la propria creatività in cucina con uno sforzo pari a zero.

A rilanciare l’idea di un piatto in condivisione è stata la moda del butter board, cioè di un tagliere rivestito di un soffice strato di burro da abbinare agli ingredienti più svariati, diventato virale su TikTok, e già definito «l’ultimo piatto per cui morire».

Per quanto esplosa sui social solo sei mesi fa, secondo il New York Times la butter board riprende un’intuizione dello chef Joshua McFadden, che nel suo libro, vincitore del James Beard Award 2017, Six Seasons: A new way with vegetables, ha presentato la citata tavoletta con granchio, limone conservato e alghe, in omaggio al francese “beurre composé” (burro aromatizzato), per invogliare i lettori a sperimentare con i sapori. Analoga l’idea sottesa all’altra tendenza lattiero-casearia sui social: la versione sotto steroidi del burro. Thomas Straker, “butter chef” con 1,2 milioni di followers su Instagram, ne crea di fantasmagorici, dal burro alla cipolla caramellata e aceto balsamico, al miso o al midollo di bue e chili, fino al tipo al caffè, da far sciogliere su pancakes al cioccolato.

Chef inglese formatosi alla corte del citato Heston Blumenthal, Straker ha raccontato al quotidiano Evening Standard di aver ottimizzato così i pomeriggi liberi del 2020, quando era bloccato in una casa di ricchi americani in Connecticut. Al motto di Welcome to “All things butter”, pronunciato con un accento dell’Hertfordshire, lo chef ha ripopolarizzato il burro su Instagram superando le crociate salutistiche e i surrogati dannosi come l’olio di palma. Peccato che della valorizzazione dei prodotti artigianali detta from farm to table e dell’aura preindustriale del burro in questo modo non sia rimasto nulla.

Grassi animali 

Difficilmente diventerà mainstream invece il recupero del grasso animale, espressione della filosofia from nose to tail, cioè “dal naso alla coda”, che invita al consumo dell’intero animale, non solo dei tagli nobili. Elaborato negli anni Novanta dallo chef inglese Fergus Henderson, oltre a far riscoprire il quinto quarto, questo schema favorisce l’utilizzo del grasso animale in cucina, rivalutandolo come ingrediente in sé, sia per ridurre gli sprechi sia come fattore d’ispirazione creativa. Nel celebrato 10-11, il ristorante dell’Hotel Portrait a Milano, uno dei cavalli di battaglia dello chef Alberto Quadrio è La mia idea di pasta in bianco, un piatto di fusilloni cotti in un brodo di croste di Parmigiano Reggiano di 36 mesi, mantecati in sala con la parte grassa residua del brodo, mentre da Butcher a Verona lo chef Julio Cabrera serve pancia di agnello da latte cotta nel suo grasso in confit per almeno 12 ore, a conferire gusto e morbidezza.

Luigi Taglienti, nel suo ristorante “soft gourmet” Io di Piacenza, manteca il risotto con una salsa albufera, a base di fondo bruno di carne, e ripropone preparazioni della grande cucina classica francese con panna e burro, scomparsi per anni dalla lista degli ingredienti (con scandalose eccezioni come la crema di parmigiano con panna di Bottura, la cotoletta al burro di Scabin o il pesto con la panna di Oldani). La sua scommessa nasce dalla richiesta dei clienti di piatti sostanziosi e soddisfacenti, che a livello palatale rassicurino con la loro concretezza vellutata. «Le persone sono reduci da anni difficili e, anche se forse il peggio è passato, a livello mentale cercano piatti con solidità» argomenta. 

Questione di soldi? 

Ci sarebbe un ultimo motivo per cui il fat revival sembra candidato a restare: oltre alle ragioni nutrizionali (il grasso non uccide), a quelle etiche (viva il grasso animale e la sostenibilità), ed edonistiche (le pietanze sono più gustose) c’è il fattore economico.

Ora che i benestanti possono contare sul farmaco antidiabete Ozempic per dimagrire a piacimento, concedersi spensieratamente le pietanze caloriche funge da indiretto status symbol. Burro, creme, salse e wagyu siglano il privilegio di chi può mangiare ciò che vuole e pagare un medicinale costoso per snellirsi. Un confronto impietoso con chi si può invece permettere solo grassi “poveri”. Per chi ha già grandi disponibilità, la magrezza senza sacrifici è tutto grasso che cola.

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