Coltivato, sintetico, alternativo, Frankenstein, clean, in provetta, cruelty-free, finto, in laboratorio. Difficile crederci, ma queste espressioni così diverse – che sottendono l’intero spettro dei giudizi di valore dal più positivo al più critico passando per i termini neutri – vengono correntemente usate per indicare la stessa identica cosa: la carne.

O meglio, la carne lab grown, coltivata in laboratorio a partire da cellule di animali veri. Animali che restano vivi, e che non soffrono neanche per il rapido prelievo di cellule, assimilabile a una biopsia: perciò i sostenitori ci tengono a usare espressioni come “cruelty-free” e “pulita”, moralmente s’intende.

Dall’altro lato, gli scettici e i detrattori – come Giorgia Meloni, che è scettica da molto prima che diventasse presidente del Consiglio, e l’attuale ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida – insistono invece sul termine “sintetico”, che suscita diffidenza se non paura, al pari di fake meat o addirittura di “carne Frankenstein”. Non è solo una questione linguistica, com’è chiaro proprio da questo accanimento sulla lingua. È una battaglia che coinvolge aspetti sociali, questioni etiche, cambiamenti climatici, interessi economici, lotta alla fame nel mondo e benessere individuale.

Proteine alternative

La popolazione mondiale è in costante aumento, siamo otto miliardi e tra qualche anno ne saremo dieci. Non solo siamo sempre di più, ma anche più (relativamente) ricchi, checché se ne dica: e vogliamo nutrirci meglio, mangiare più proteine.

Dall’altro lato, gli allevamenti industriali di bovini e pollame, che finora hanno soddisfatto questa crescente richiesta senza badare ad altro, stanno diventando sempre più insostenibili: emettono quantità spropositate di gas serra, monopolizzano l’uso dei suoli e il consumo di acqua, creano ceppi di batteri antibiotico-resistenti incredibilmente aggressivi. Per non parlare della questione etica: mucche e maiali sono mammiferi, nostri cugini, è dimostrato che soffrono; sempre più persone se ne rendono conto, vegetariani e vegani sono in crescita.

Di qui, il mercato delle cosiddette proteine alternative. Che sono diventate via via più sofisticate: dalle confezioni di tofu, tempeh e seitan che imperversavano vent’anni fa nei negozi bio, alle prime goffe imitazioni di “hamburger vegetali”, fino alla più recente elaborazione della plant-based meat, che prova a ricreare la carne non solo dal punto di vista dell’apporto nutrizionale ma anche da quello della consistenza e del sapore.

Sono prodotti a base di legumi, prevalentemente soia ma non solo, e per loro la definizione di “fake meat” o “carne finta” non è fuori luogo. Si trovano già in vendita, ormai anche nella Gdo, commercializzate da startup con nomi suggestivi come Impossible e Beyond, che sono in breve diventate dei colossi; e che sono ora affiancate da produttori tradizionali, saltati sul treno del nuovo business.

Accanto a questo filone, ci sono strade alternative: chi punta a ricavare proteine dai funghi, chi dagli insetti, chi prova a tirarle fuori dai batteri e chi persino dall’aria (o meglio dall’anidride carbonica). Ma la ricerca più promettente è quella sulla carne coltivata.

Come funziona

Il procedimento che sta alla base della carne coltivata è semplice anche se pare avere del miracoloso.

Si prelevano delle cellule staminali dall’animale – ne bastano poche, non c’è bisogno di tagliargli una coscia, ma comunque viene usato dell’anestetico – che vengono inserite in un liquido di coltura costituito da proteine, grassi, sali e altri nutrienti, in modo che possano naturalmente riprodursi e moltiplicarsi, seguendo la loro natura. Questo grumo di cellule poi viene passato in bioreattori dove la moltiplicazione continua, e le cellule si specializzano diventando tessuti muscolari. Semplice e pulito, effettivamente clean, e letteralmente carne, nessuna imitazione.

Anche qui, sono partite le startup: tra le prime, già nel decennio scorso l’olandese Mosa Meat, poi le americane Memphis Meats e Eat Just, l’israeliana Aleph Farms e via via altre. Ma chiaramente il boccone è succulento, e negli ultimi tempi si sono lanciati nel business investitori pubblici e privati, soprattutto del mondo della tecnologia come Sergey Brin, Bill Gates, Richard Branson, e anche personalità come l’attore Leonardo DiCaprio.

Qual è il problema, allora? Ce ne fosse solo uno. Innanzitutto i costi: per produrre un hamburger ci vogliono migliaia di dollari, almeno finora. Poi l’impatto ambientale, perché questi bioreattori consumano energie, e producono rifiuti come i gas serra.

Infine i risultati: sempre finora, la differenza tra un pezzo di carne proveniente da un animale macellato, e uno coltivato in laboratorio, a parità di nutrienti sta nella struttura, e quindi nel sapore, nella consistenza, nell’esperienza come si dice oggi. Insomma una cosa è ricreare un pezzo di carne macinata, ben altro avvicinarsi alla complessità fatta di muscoli, grassi, cartilagini che caratterizzano una bistecca: non a caso tra i prodotti più facili da realizzare ci sono quelli dalla struttura cremosa come il foie gras.

Per tutti questi motivi – oltre che per le naturali diffidenze dei consumatori verso tutto ciò che è nuovo, soprattutto a tavola, e per le relative cautele dei governi – finora la carne coltivata si può mangiare in pochi posti al mondo: a Singapore, dove il primo prodotto a base di pollo è stato autorizzato nel 2020, e in Israele ma solo nel laboratorio aperto al pubblico di Aleph.

Le cose però si muovono: alla fine del 2022 anche gli Stati Uniti hanno dato un primo via libera alla carne coltivata, anche se si tratta di un nulla osta preliminare, un passaggio intermedio. E in Europa se ne inizia a parlare.

L’Italia controcorrente

Dal lato opposto, l’Italia. Dove l’attuale governo ha più volte ribadito la propria avversione verso la carne coltivata - o verso tutto il “cibo sintetico”, come dicono. In una recente riunione del Consiglio dei ministri si è persino approvato un disegno di legge volto a limitare, se non a vietare, la carne in laboratorio. Ovvero, pensiamoci un attimo, qualcosa che ancora non c’è. E che non si sa quando (se) ci sarà mai. Il testo si richiama al principio di precauzione vigente nell’Unione europea: ma il principio di precauzione (articolo 7 del regolamento 178/2002) impone misure provvisorie della gestione del rischio in attesa di evidenze scientifiche.

È certo quindi che l’Ue non autorizzerà mai nuovi cibi senza aver fatto opportune ricerche e analisi, ma è altrettanto ovvio che una volta accertata la sicurezza, la precauzione può abbandonarsi e si va avanti: proprio come sta succedendo con alcuni prodotti a base di insetti. Tra l’altro proprio nelle stesse settimane usciva il rapporto Fao sui rischi della carne coltivata: rischi di contaminazioni e di altri tipi che esistono, ma che sono analoghi a quelli relativi alla catena di produzione e distribuzione delle carni tradizionali. Insomma, che si stia attenti in un caso come nell’altro.

La proposta del governo tra l’altro contiene una norma che, hanno fatto notare i critici, se interpretata alla lettera potrebbe vietare la produzione di pane e vino, oltre che della stessa carne. Si parla infatti di alimenti «prodotti a partire da colture cellulari» (e cos’altro sono i lieviti preposti alla fermentazione?), nonché di «alimenti costituiti (…) da tessuti derivanti da animali vertebrati». Infine il testo, almeno in una delle versioni che è circolata, fa salvi gli alimenti prodotti in altro stato Ue: potremmo ritrovarci quindi, proprio come capita con gli Ogm, con il divieto di produrre ma con la libertà di importazione.

La verità, come si sarà intuito, è che questo disegno di legge pare più una bandierina ideologica, oltre che un modo per dettare l’agenda mediatica, toccando il nervo scoperto dell’italico tradizionalismo gastronomico, della cucina di nonna e dell’intoccabile ricetta della carbonara.

Al momento un testo ufficiale non risulta, non essendo stato ancora incardinato presso nessuno dei due rami del parlamento. Nel frattempo, nel resto del mondo, le cose si muovono anche dal punto di vista sostanziale.

Quando arriva?

Parliamo sì di cibo, ma anche e soprattutto di tecnologia: un settore dove le cose si muovono alla velocità della luce.

Quando arriva questa benedetta carne coltivata? E mentre Carlotte Lucas, Manager di Good Food Institute Europe, ne faceva una problema di ostacoli burocratici e governativi, il fondatore e Ceo della startup Thimus Mario Ubiali prevedeva tempi lunghi e progressione incerta. A soli sei mesi di distanza, le cose sembrano cambiate: oggi lo stesso Ubiali disegna un quadro fortemente accelerato. «C’è una curva di evoluzione tecnologica ragionevole che deriva dall’enorme apporto finanziario degli investitori. Gli spiedini di pollo coltivato di Eat Just a Singapore costano 18.50 dollari, il che li qualifica comunque come un bene di lusso, ma non fuori da ogni parametro». 

Poi: alcune nuove aziende sono in grado di operare su bioreattori sempre più grandi. Altre hanno cominciato ad annunciare che sono in grado di fornire un liquido di supporto per i bioreattori che sia interamente creato da zero e non prelevato da animali. Spiega Ubiali: «Nel giro di un tempo potenzialmente breve potremmo assistere ad una transizione da carne coltivata come prodotto ultra-disruptive a carne coltivata come prodotto mainstream, almeno dal punto di vista degli investimenti. Ma inizia anche a circolare l’idea che il futuro sia costituito da prodotti “blended”, cioè a ricetta mista: ad esempio 50 per cento cultivated e 50 per cento plant-based, magari derivante da fermentazione di funghi».

Sostenibilità

Un’altra questione, anzi forse attualmente la questione principale, è quella della sostenibilità. Che è un argomento come sempre scivoloso e complicato: mancano fonti, è difficile comparare i dati, le stesse aziende non sono proprio super trasparenti sul tema.

Stella Child, research and grants manager della già nominata Good Food Institute Europe – associazione non profit che promuove tutti i tipi di alternativa alla carne – assicura che siccome la sostenibilità è una delle prime preoccupazioni delle società che operano nel settore, sempre più startup useranno energie rinnovabili: «Upside Foods, per esempio, afferma che il suo nuovo centro di produzione negli Stati Uniti è 100 per cento rinnovabile».

Questione connessa è quella delle emissioni, soprattutto di gas serra: qui Child cita un recente studio che disegna vari scenari nel settore carne coltivata per il 2030. «Risulta che anche se venisse usato l’attuale mix energetico medio (che si basa ancora molto sulle fonti fossili) le emissioni sarebbero comunque inferiori a quelle della produzione di bovini in Europa. E considerando invece l’aumento di energia pulita, la carbon footprint sarebbe più bassa di quella della maggior parte della carne convenzionale e del pesce d’allevamento, con un taglio delle emissioni del 92 per cento».

«Peccato», obietta Ubiali, «che leggendo con attenzione si scopre che si tratta di una stima al 2030, basata sul best case scenario, cioè che chi la produce trovi un modo di ridurre significativamente l’impatto energetico della produzione stessa. Significa che la cultivated meat può abbattere il dominio del manzo intensivo».

Ma l’impatto ambientale degli allevamenti industriali non si misura solo in termini di CO2 e metano: «Poiché la carne coltivata è molto più efficiente nel convertire le risorse in cibo», argomenta Child, «richiede il 90 per cento di terra in meno rispetto alla carne bovina convenzionale. Se questa terra fosse utilizzata per espandere le foreste, ripristinare gli ecosistemi e coltivare in modo sostenibile, i benefici ambientali potrebbero essere ancora maggiori.

Inoltre, la carne coltivata potrebbe utilizzare il 66 per cento in meno di acqua rispetto alla carne bovina convenzionale, il che potrebbe comportare un minore impatto ambientale a livello di inquinamento atmosferico, acidificazione del suolo e l’eutrofizzazione (aumento di alghe e sostanze tossiche per i pesci, ndr) dei mari».

Il ruolo della politica

Sulla questione politica, infine, l’amministratore delegato di Thimus esprime una posizione intermedia: «In Italia il livello medio di neofobia alimentare è molto alto. Perciò noi crediamo che le soluzioni non siano mai universali. Tanto è vero che la nostra posizione sulla carne coltivata è semplicissima: non ce n’è bisogno. Ci sono decine di altre soluzioni sostenibili, rigenerative, sane e nutrienti, che sono anche culturalmente rilevanti. Ci sono già decine di possibili strade per riformare i sistemi alimentari massificati e intensivi, solo che sono strade scomode, che implicano seri cambiamenti nei nostri stili di vita e la rinuncia ad un’idea predatoria e iper-consumista del cibo. E allora piace di più pensare che la tecnologia sia la scialuppa di salvataggio. Ma noi non crediamo lo sia e crediamo che bisognerebbe parlare seriamente di come cambiare il nostro rapporto con l’alimentazione per tornare ad una nozione più bilanciata di rapporto con il sistema naturale».

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