Il suo nome era Wazer Ahmad Zainal, ha lavorato per 14 anni nel dipartimento della sicurezza di Herat, ha combattuto i Talebani e il loro regime. Quando gli occidentali hanno lasciato il paese in mano ai tagliagole, Zainal ha scritto ai governi, anche all’Italia, per chiedere un corridoio di fuga. In attesa di risposte, è scappato con la sua famiglia in Iran, poi è andato in Turchia per imbarcarsi e fuggire verso l’Italia. È morto, insieme alla moglie e ai figli, nella tragedia di Cutro del febbraio scorso. La sua vicenda ricorda quella di un film, ma nella realtà non c’è nessun lieto fine.

Jamshidi Gulaqa, rifugiato politico in Italia, ricorda la storia del cugino e chiede a gran voce al governo italiano di mantenere la promessa sui ricongiungimenti che, come ha rivelato Domani, sono ancora bloccati. Una promessa fatta a lui e agli altri familiari delle vittime di Cutro dal governo italiano, durante il colloquio con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che si è svolto lo scorso marzo.

L’appuntamento con la prima ministra era stato fissato dopo il mancato incontro con i parenti a Crotone e la mancata visita da parte dei rappresentanti dell’esecutivo al palazzetto dello sport dove erano state posizionate le bare.

«Nella strage di Cutro (94 morti, di questi 35 bambini) c’è chi ha perso l’intera famiglia. Il ricongiungimento con un parente lontano è il minimo che il governo possa fare, ma le procedure sono ferme, i familiari hanno anche inviato la lista dei parenti alla prefettura, ma ad oggi non ci risulta avviata alcuna pratica», dice Manuelita Scigliano, presidente dell'associazione Sabir che fin dal primo istante ha seguito i familiari.

C’è una scena della tragedia di Cutro che ancora esplode nelle menti dei volontari e degli operatori dell’associazione, a lungo poi seguiti da un supporto psicologico.

Una figlia era arrivata troppo tardi dalla Germania per riconoscere la madre, i corpi erano già nelle bare e pronti per essere seppelliti o trasportati in un altro paese. Ma lei voleva per l’ultima volta vedere la madre.

Urlava, si disperava, gli addetti alla sicurezza le dicevano di non piangere così forte, ma lei si aggrappava con le unghie alla bara provando in tutti i modi ad aprirla fino a farsi sanguinare le mani.

Questa è stata la tragedia di Cutro e ora i familiari di quelle vittime vengono traditi di nuovo. Parenti che, in questo momento, sono in Iran, Turchia, Pakistan e temono per la loro vita. Così come temeva per la sua incolumità Zainal, costretto a fuggire in mare prima di incontrare la morte.

Non è un film

La storia di Zainal ricorda la trama del film The Covenant del regista Guy Ritchie dove si racconta l’amicizia tra un soldato americano con il suo interprete afghano. È proprio il traduttore a salvargli la vita durante un’imboscata, l’interprete però sarà abbandonato nelle mani del regime talebano alla ripartenza degli americani.

Così il sergente, quando viene a sapere del destino del suo amico e della sua famiglia, torna in quella zona di guerra, e li salva sfidando i tagliagole. Ma la realtà non è un film, almeno quella di Zainal che ha scritto a tutti i paesi con i quali ha collaborato nei suoi 14 anni di attività da agente dei servizi di sicurezza, ma nessuno è tornato a prenderlo.

Domani ha letto le sue lettere, le sue email che avevano sempre in allegato il curriculum, le foto e le attività svolte come «scoprire il piano del nemico, partecipare alla missione contro i terroristi e altri gruppi come i talebani e al Qaida, condividere punti gps con la Nato e l'esercito americano per l'attacco aereo, identificare e arrestare le spie nemiche».

Dentro quelle missive non c’è solo il racconto di un impegno, la dignità di un uomo che rischiava la vita con la famiglia, la sua disperazione, ma anche le tappe del suo viaggio per mettersi in salvo. «Durante la mia missione sono stato minacciato più volte da talebani, contrabbandieri e altri gruppi criminali e ora, dopo il crollo del governo, quelli che sono stati arrestati durante la mia missione sono usciti dalle carceri e vogliono uccidermi», scriveva nel giugno del 2022. Sempre a giugno invia un’email dall’Iran dove era riuscito a scappare, tra i destinatari anche l’ambasciata italiana a Teheran. Un racconto drammatico.

«Sono venuto in Iran perché non mi sentivo al sicuro in Afghanistan, sono stato testimone dell'uccisione del mio staff che era sotto la mia supervisione e anche di membri della famiglia. Secondo le nuove restrizioni e norme del governo della repubblica islamica dell'Iran, la deportazione dei rifugiati in Afghanistan è in corso, il mio budget è sceso a zero e non vado a lavorare per paura di essere preso. Chiedo il supporto umanitario per l'evacuazione o di rilasciare un visto di immigrazione per me e la mia famiglia nel vostro paese e di salvare la nostra vita secondo la nostra precedente collaborazione».

Scriveva a servizi segreti, consolati, ministeri dei governi occidentali, lettere che non sono servite a salvarlo. Gli europei, Italia compresa, e gli americani lo hanno lasciato solo.

Zainal aggiungeva anche la fine che gli sarebbe toccata se fosse rimasto in Afghanistan: «Alcuni militari che erano il principale obiettivo dei talebani hanno cercato di salvare se stessi e le loro famiglie, alcuni di loro sono andati in governi amici, altri sono emigrati nei paesi vicini. Quelli che rimangono in Afghanistan e non possono immigrare, sfortunatamente sentiamo dai media e osserviamo che sono stati uccisi senza alcun motivo».

La sua storia rende ancora più gravi e inaccettabili le parole del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che, dopo la tragedia di Cutro, aveva detto: «La disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli, chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli stati a offrire la via d’uscita al loro dramma». Zainal non può rispondere al ministro, la sua storia e la sua memoria vivono nel ricordo del cugino, rifugiato politico in Italia.

I ricongiungimenti fermi

Anche Jamshidi Gulaqa è stato impegnato a Herat contro i talebani, ma lui è riuscito a entrare in Italia quando gli occidentali hanno abbandonato l’Afghanistan sancendo il ritorno dei tagliagole. «Quando ero nel mio paese vedevo l’Occidente e i suoi governi come specchio della serietà, ne avevo stima, da quando sono arrivato ho scoperto un’altra realtà, sono veramente deluso, se un’istituzione promette deve anche mantenere», dice Gulaqa criticando l’Italia per i mancati ricongiungimenti.

Aspettano una risposta in tanti, figli, padri, fratelli, madri che sono nei campi profughi in Pakistan, rimasti bloccati in Turchia, in Iran e che avevano preso sul serio quella promessa e che speravano di ricongiungersi ai parenti dei defunti.

Domani ha chiesto conto alle istituzioni di questo ritardo, il ministero degli Esteri ha fatto sapere che è in attesa del nulla osta che deve essere rilasciato dalle prefetture che dipendono dal Viminale, ma palazzo Chigi e la prefettura di Crotono non hanno fornito risposto alle nostre domande. Gulaqa affronta la sua battaglia, rappresenta le istanze dei familiari e lavora per mantenersi, tra pochi mesi non avrà più un’occupazione.

«Io raccolgo olive per mettere da parte i soldi, in questo momento la nostra situazione è tragica da un punto di vista economico e non riesco a dire quanto ci resta di autonomia.

Nonostante tutto voglio la verità su quanto accaduto a Cutro, voglio sapere perché quelle persone non sono state salvate e chiedo al governo di mantenere i patti perché ancora soffriamo troppo.

Meritiamo delle risposte, non è bello vivere nel dolore. La prima persona che ho riconosciuto è stata la moglie di mio cugino, di Zainal, invece, non c’era quasi più niente, l’ho riconosciuto da un anello», conclude Gulaqa.

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