L’ultima linea di difesa contro il coronavirus è costituita dalle terapie intensive, i reparti degli ospedali dove i pazienti in condizioni critiche sono mantenuti in vita grazie alla respirazione artificiale. Ma le terapie intensive non sono semplici letti a cui è attaccato un ventilatore. Sono complesse unità mediche, che richiedono costante sorveglianza da parte di personale specializzato. Chiara Marconi, 35 anni, sposata con tre figli, è un’infermiera con più di un decennio di esperienza di questi reparti.

Laureata all’Università Bicocca, oggi lavora all’ospedale Sacco di Milano, uno dei principali punti di riferimento per la lotta al Covid nel Nord Italia.

Secondo Marconi, per prepararci alla terza ondata avremo bisogno di molti altri specialisti come lei. Non solo medici, ma anche infermieri, che da molti anni sono invece sacrificati e svalutati.

Come descrive il suo lavoro?
Da quando sono tornata dalla mia seconda maternità, nel 2016, sono un’infermiera fuori turno, cioè lavoro tutte le mattine e mi occupo di tirare un po’ le fila organizzative della giornata, in modo da aiutare i miei colleghi. Per questo sostituisco il nostro coordinatore quando va in ferie o si ammala. Ma spesso, per carenza di personale, faccio la normale turnista.

Di cosa si occupa il vostro reparto?
Siamo una delle terapie intensive di riferimento per il Covid-19. Siamo stati i primi ad aprire e saremo gli ultimi a chiudere. Abbiamo i nostri pazienti, che arrivano dai reparti e dal pronto soccorso, ma assorbiamo anche pazienti “sporchi”, cioè positivi al virus, da altri ospedali, in modo che possano riaprire come ospedali “puliti”. Normalmente abbiamo sei posti letto ad alto biocontenimento, ma con la prima ondata i nostri posti letto sono quintuplicati e ora ne abbiamo 31.

Come si svolge il vostro lavoro?
Il paziente standard in terapia intensiva è completamente sedato e immobile. Dipende in tutto e per tutto dalla nostra attenzione e noi ci occupiamo di fornire un sostegno a qualsiasi sua funzione vitale. Un infermiere di terapia intensiva ha uno sguardo a tutto tondo e abbiamo un rapporto numerico tra infermieri e pazienti che ci permette di farlo. Normalmente questo rapporto è di uno ogni dieci o venti. In terapia intensiva è di uno ogni due.

E cosa fate in concreto?
Monitoriamo costantemente tutti i parametri vitali, collaboriamo con il medico e gli portiamo le informazioni necessarie a mantenere l’equilibrio del paziente: questo è il nostro vero lavoro. Tanti pensano che l’infermiere di terapia intensiva sia l’infermiere d’attacco, come quelli della serie Er. Ma in realtà se uno fa bene questo mestiere questo tipo di urgenze le previene. La terapia intensiva se fatta bene è noiosa. L’attenzione al particolare è tutto. Bisogna valutare ogni singolo parametro vitale e aggiustarlo al centesimo. Basta un potassio che sale o scende un pochino per farci entrare in azione. Facciamo tutta una serie di piccoli aggiustamenti costanti che servono a fare sì che il paziente rimanga stabile. Poi ci dobbiamo occupare di tutti i problemi che può generare l’immobilità, come la gestione delle lesioni da decubito. E nel caso dei pazienti Covid-19, di tutti i problemi dovuti a una continua posizione prona nella quale sono tenuti.

Com’è stato l’impatto col coronavirus?
Lo abbiamo visto arrivare subito. Già il 21 febbraio, il giorno di Codogno, abbiamo liberato la rianimazione normale del Sacco e aperto la rianimazione con biocontenimento. Da lì l’escalation, abbiamo cominciato a prendere i pazienti della provincia di Lodi. In due settimane abbiamo aperto 30 posti in più, aumentandoli di due unità al giorno. Con la seconda ondata è stata la stessa cosa. Ora abbiamo circa cento infermieri che gestiscono 31 letti di terapia intensive. Circa la metà hanno una preparazione recente e specifica sulla gestione di terapie intensive.

E questo cosa comporta?
Comporta che abbiamo scoperto che mancano gli infermieri intensivisti e che mancano da molto tempo. E che se arrivi a fare l’infermiere in terapia intensiva senza nessuna preparazione può essere problematico. Non è colpa degli infermieri, ovviamente, ma di un’organizzazione generale che non ha pensato in questi mesi di tregua di formare una task force di infermieri intensivisti. Per fare l’infermiere di terapia intensiva ci vuole del tempo e questa cosa non è mai stata presa in considerazione.

Come si diventa infermieri di terapia intensiva?
Questa è la questione problematica. Ci sono diversi master in assistenza infermieristica area critica. Sono importanti per il concorso da infermiere, nel senso che ti danno punti in più per accedere, ma non hanno nessun tipo di valore come indicazione su dove vuoi andare.

Puoi avere un master, dieci anni di esperienza in terapia intensiva, ma se ti assumono possono dirti che hanno bisogno di personale in geriatria e tu non hai scelta. Si tratta di una situazione molto demotivante. Io ho tre figli e ogni volta che sono rientrata dalla maternità sono dovuta scendere a compromessi per poter rientrare dove volevo andare io, ad esempio rinunciando all'allattamento. Per un’altra professione non sarebbe mai successo.

Qual è stato il tuo percorso?
Faccio parte di una generazione che ha avuto modo di fare tantissima esperienza: tre mesi di affiancamento e poi un anno sotto stretta tutela. Siamo stati fortunati, abbiamo avuto persone che ci hanno formati per tanto tempo.

Oggi arrivi in terapia intensiva e se ti va bene hai un mese per imparare a lavorare, poi inizi con i turni. Sulla professione infermieristica non si vuole investire, semplicemente. Speriamo che da domani le cose cambino.

 

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