«Non faccio il politologo, non faccio l’inquisitore, io conosco le persone. Se queste persone sono “trattate” dagli organi dello stato, io non ho niente da rimproverargli né da rimproverarmi», dice Giuseppe Caffo quando gli chiediamo un giudizio sui Mancuso. I Mancuso, a Limbadi nel cuore della Calabria, in provincia di Vibo Valentia, sono la più potente cosca di ‘ndrangheta.

Il capo, Luigi Mancuso, lo chiamano “il supremo” oppure “lo zio”.  Oggi Mancuso è il principale imputato nel processo Rinascita-Scott.

Giuseppe Caffo è un imprenditore, presidente del gruppo che, a Limbadi, gestisce una distilleria che ha dato lustro al territorio. I Caffo sono i produttori del famoso Amaro del Capo. Un impero industriale che gestisce con il figlio Sebastiano, detto Nuccio, amministratore delegato.

Nuccio è molto arrabbiato per la notizia che Domani ha rivelato due giorni fa: lui e il padre, a marzo, sono stati iscritti nel registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio, fascicolo nel quale gli inquirenti scrivono di incroci pericolosi proprio con Mancuso e sodali. 

L’amaro non odora di mafia

«Ma quale riciclaggio, noi lavoriamo con i fidi bancari e investiamo i nostri utili, non c’è un solo euro di altra provenienza, siamo pronti a ogni tipo di controllo», dice Nuccio Caffo. Difende la holding di famiglia che ha un secolo di storia. Negli anni han acquistato ogni tipo di marchio dalla Borsci al Petrus. 

Se il padre Giuseppe Caffo non si sente di «rimproverare i Mancuso», il Nuccio parla di conoscenze derivanti dalla convivenza nello stesso paese. «Nel nostro comune non è mai successo nulla di eclatante tranne l’autobomba che ha ucciso un mio amico», dice. 

Matteo Vinci muore ucciso con un’autobomba nel 2018, per quell’omicidio la procura ha chiesto la condanna di alcuni componenti del clan Mancuso.

«Se i Mancuso hanno sbagliato devono stare in galera. Per l’economia della nostra regione sono un grave danno, io condanno tutta la ‘ndrangheta non solo Mancuso. Ma lo stato deve fare lo stato, non può pretenderlo dai cittadini», dice Nuccio Caffo. 

«La magistratura fa bene a indagare, ma alcuni vengono processati e poi assolti con le imprese finite gambe all’aria. Questa indagine si chiuderà con l’archiviazione se non è già chiusa». 

Per l’indagine a carico dei Caffo è stata fatta richiesta di archiviazione, sono ancora in corso le verifiche degli inquirenti? Dalla procura nessuna risposta, i Caffo ribadiscono la completa estraneità alle accuse. 

La versione del presidente

Iniziamo con il presidente del gruppo Pippo Caffo. Conosce Luigi Mancuso, il defunto Pantaoleone Mancuso, detto "Luni scarpuni”? «Il paese è piccolo, ci conosciamo tutti. Non penso niente né della cosca né delle persone. Erano persone che camminavano libere. Se hanno avuto dei problemi che devo fare io», sostiene Pippo Caffo. 

Ma la ‘ndrangheta e i Mancuso sono un problema per lo sviluppo imprenditoriale? «Le attività piccole e grandi non hanno avuto difficoltà, non è successo mai niente, non sento di accusare nessuno. Io non faccio affari con loro». I Mancuso, la loro banda criminale che è diventata holding di sangue e affari non sono un problema, sono come l’Aspromonte, una presenza immutabile. Dalle carte emergono i rapporti societari di Caffo padre con i Naso, finiti nel processo “Rinascita Scott”.

«Certo che li conosco. Eravamo soci ( con Gregorio Naso, ndr) in un’azienda, la Mareverde, che poi è stata mandata in liquidazione, ma con il nostro gruppo non ha rapporti. Ora sono stati denunciati, mi auguro che possano risolvere tutto al più presto», risponde Caffo. Nel 2011 quando muore, suicida (?), la moglie di Pantaleone Mancuso nel corteo in preghiera c’era anche Pippo Caffo,.

«Siamo andati al funerale di una donna morta in modo traumatico. Dai genitori andavamo a comprare i pesci», dice Caffo. Ma era la moglie di un boss? «Si trattava di un lutto». 

La replica dell’amministratore

Nuccio Caffo, che del gruppo è amministratore delegato, entra nel merito degli elementi emersi dal fascicolo. Inizia dalle parole del pentito Andrea Mantella che parla di Pippo Caffo come grande amico dei Mancuso. «Non conosco Andrea Mantella se non dai giornali, c’era una guerra di mafia e Mantella era schierato contro i Mancuso, si può dare credito a un delinquente del genere?», dice Nuccio Caffo. Ricorda anche di quando il padre si è allontanato dalla locale squadra di calcio per evitare rapporti con Pantaleone Mancuso. 

Sulla società Marevedere dove il padre è stato socio con Gregorio Naso, ora a processo in Rinascita Scott, dice: «Mareverde gestiva un campo da golf che era di un barone (Braghò). Dentro la società c’era la moglie del barone e ci hanno pregato di prendere una quota di questa società di gestione, papà ha perso decine di migliaia di euro poi ne è uscito, tra i soci c’era anche questo Naso che aveva l’unico impianto di cemento della zona. Ora sono a processo, ma non sono stati ancora condannati, noi eravamo clienti e basta», spiega Caffo. 

Il fascicolo che li vede indagati racconta anche i rapporti con Gaetano Molino, sposato con Silvana Mancuso, considerato uomo di fiducia di Luigi Mancuso. Per gli inquirenti i Caffo non potevano non sapere della «contiguità alla cosca» di Molino. «Lo conosciamo sia io che mio padre, ma niente di più» prima di aggiungere «anche il procuratore Gratteri ha detto tante volte di essere stato compagno di scuola dei mafiosi e poi li ha arrestati, è normale averli avuti come conoscenti, è reato?», dice Nuccio Caffo.

Nel fascicolo poi ci sono le intercettazioni. Davanti a una tavola bandita, alla presenza di Luigi Mancuso, alcuni imprenditori parlavano dell’amaro ghiacciato e dell’idea di esportarlo.

«Noi esportiamo in 70 paesi, possono verificare le operazioni doganali, siamo totalmente trasparenti, abbiamo rating di legalità altissimo. Io ho 100 rappresentanti, ho un direttore commerciale di primo livello, ho fatto chilometri nel mondo per costruire una rete. Ora questi a cena parlano e io che posso fare?».

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