Non torneranno più le merendine di quando ero bambino. Lo grida Nanni Moretti in preda a una crisi di nervi in Palombella rossa: ha 35 anni e l’infanzia è finita. È una constatazione sempre dolorosa. Un giorno ci si sveglia e viene da gridare «Mamma, cos’è successo? Dove sono finiti i pomeriggi di maggio, il brodo di pollo di quando ero malato?».

L’unica soluzione è far finta di niente, continuare ad alimentarsi di plumcake come Zerocalcare. Non è solo una questione di gusto, è che, finché Zerocalcare si nutre di merendine, la sua, la nostra infanzia e adolescenza non possono dirsi finite. Le promesse di una vita adulta solida, con punti di riferimento saldi, un mondo che ha una forma di cui ci si può fidare, può ancora non dirsi tradita. 

La merendina confezionata ha dunque questo portato mitico: scavalca i conflitti generazionali, tiene unita una nazione, le ricorda cos’era la vita quando era ancora carica di sogni e promesse. L’Italia come un collettivo effetto madeleine: basta un morso di Kinder Fiesta per tornare ai pomeriggi dopo la scuola, seduti sul divano davanti alla televisione. O ancora all’intervallo di metà mattina, la girella Motta scartata di fretta per poi correre a giocare in cortile.  È parte del romanzo di formazione di ogni bambino italiano, una memoria emotiva condivisa che ha a che fare con un certo modo di dire “infanzia”. 

C’era una volta

Ricomporre il mosaico delle merendine confezionate significa ripercorrere la storia d’Italia degli ultimi settant’anni. Perché se i consumi di un paese sono anche la sua storia culturale, la sua identità antropologica e sociale, il prodotto-merendina permette di gettare uno sguardo sui cambiamenti epocali in atto a partire dagli anni Cinquanta. Gli italiani del boom economico sono un popolo che in pochi anni dismette l’etichetta di “paese sottosviluppato ad economia principalmente agricola” per abbracciare quella di “potenza industriale mondiale” dimenticando che, poco tempo prima si usava dire che quando un contadino mangiava un pollo o era malato il pollo o era malato il contadino.

Ai tempi del fascismo, della guerra, ma anche del secondo dopoguerra – tempi di quotidianità opaca e casalinga, fondati sull’arte della riparazione e del risparmio – la merenda non era appannaggio di tutte le famiglie italiane. I dolci erano riconosciuti come gli alimenti che si prestavano meglio ad essere consumati lontano dai pasti principali perché davano una soddisfazione immediata e avevano un alto portato calorico, utile a compensare diete altrimenti piuttosto povere.

La merenda dei bambini del dopoguerra veniva riposta accuratamente dalle madri nei cesti di vimini foderati in cotone. Nel migliore dei casi si trattava di una fetta di torta fatta in casa o di biscotti casalinghi. Più spesso era semplicemente una fetta di pane con burro e zucchero oppure marmellata. Il tutto accompagnato da un fazzoletto di tela con le iniziali del bambino ricamate sopra, parte del corredo. 

L’industrializzazione

Su questa tradizione ben consolidata si infrange il boom economico con l’industrializzazione che investe anche il settore alimentare.  Se quando pensiamo agli anni Sessanta la prima immagine che viene alla mente è l’utilitaria Fiat che sfreccia sull’autostrada del sole, stiamo dimenticando che l’industria alimentare, e in particolare quella dolciaria, è una delle industrie che in Italia tra gli anni Sessanta e Settantasi svilupperà di più, rispondendo prontamente  alle nuove necessità di una società in pieno mutamento. La storia delle merendine s’intreccia, infatti, indissolubilmente, con un’altra storia cruciale per lo sviluppo della nostra società: la progressiva crescita del tasso di occupazione delle donne, dal dopoguerra a oggi.

Una parte della popolazione femminile inizia a lavorare fuori casa, o in ogni caso ad avere meno tempo da dedicare alla preparazione dei pasti. Il risultato è che il tempo rimasto viene dedicato ai pasti principali, se non solo al pranzo della domenica. I due fenomeni si intrecciano e si alimentano a vicenda: le donne spendono meno tempo a panificare e ne hanno di più per le attività extra-domestiche, e viceversa l’offerta di prodotti pronti o semi lavorati le libera dall’obbligo di occuparsi della cucina per un numero di ore oggi impensabile.

L’antropologa Carole Counihan ha studiato come a Bosa, in provincia di Oristano, la panificazione domestica sia stata abbandonata nel giro di pochissimi anni, dal 1960 al 1967: le donne sarde smisero quasi di colpo di panificare collettivamente, una pratica che veniva ripetuta circa ogni dieci giorni.

 Visto che il grano non veniva ormai più coltivato dagli uomini, iniziarono ad acquistarlo. Cessò così un’attività che durava dalle tre del mattino alle quattro del pomeriggio, il prodotto consumato divenne più vario e si registrò un mutamento nei rapporti sociali con un aumento della libertà individuale, nel senso che venne a cadere la dipendenza reciproca tra le donne e diminuì il controllo sociale costantemente rinforzato attraverso questo rito collettivo. 

Se è eccessivo attribuire all’avvento dell’industria alimentare il merito di aver emancipato le donne dal carico delle cure domestiche, si può però affermare che contribuì a cambiare le abitudini delle famiglie, facilitando e in alcuni casi rendendo del tutto obsolete alcune mansioni, attraverso l’invenzione della merenda confezionata.

Il Mottino

L’idea dell’industria alimentare fu quindi quella di creare dei dolcetti, poi chiamate merendine, in grado di imitare il dolce fatto in casa, richiamandolo tanto per presentazione che per gusto. La prima vera merendina risale agli anni Cinquanta ed è il Mottino, un panettone in miniatura firmato Motta, imprenditore dell’industria dolciaria noto già dagli anni Trenta. 

«La chiave di lettura di questo fenomeno non è quella della novità» spiega Emanuela Scarpellini, docente di Storia sociale all’università degli studi di Milano e autrice del saggio A tavola! Gli italiani in sette pranzi (Laterza 2014), un interessante viaggio nella storia alimentare del paese dall’unità ad oggi.

«Si tratta piuttosto di mimare i dolci della tradizione, proponendone versioni monodose, ben sigillate e dalla presentazione accattivante, con un rimando sempre esplicito alla tradizione. In questa maniera l’industria dolciaria va incontro alle nuove necessità delle famiglie italiane: un’attenzione maggiore per l’igiene e la praticità, una continuità con gusti e pratiche secolari. Ma, ancor prima, un’attenzione per l’alimentazione dei bambini nati nel nuovo boom demografico». Infatti l’industria delle merendine ha come target privilegiato l’infanzia.

Se durante il fascismo la merenda era piuttosto un pasto straordinario da garantire agli adulti lavoratori, il boom economico la presenta come un prodotto alimentare rivolto ai giovanissimi. L’idea è quella che, passato il periodo di ristrettezze del fascismo, della guerra e della ricostruzione, si è finalmente approdati ad un’epoca di benessere. I figli del boom non avrebbero più dovuto soffrire le penurie alimentari delle generazioni precedenti. Da qui l’attenzione spasmodica dei genitori a garantire non solo l’igiene ma anche una sana e ricca alimentazione per i loro figli che per la prima volta potevano mangiare senza pensieri. Ecco che lo zucchero si fa simbolo di benessere e salute.

Il Buondì della Motta è la prima tra le merendine confezionate a proporsi come corrispettivo della classica brioche che prima d’allora – siamo negli anni Sessanta – era disponibile solo al bar o in pasticceria. Il suo successo consiste nell’impasto a lievitazione naturale, che richiama la  colomba pasquale, della quale il “buondì” conserva la glassatura all’amaretto e la guarnizione di granella di zucchero. Poi la Girella con la sua iconica forma a spirale, anche lei Motta, così come i gelati da passeggio, ovvero con lo stecco.

Ferrero nel 1961 lancia sul mercato la Brioss, soffice trancino di pandispagna farcito con marmellata di albicocche o di ciliegie, che legò il suo successo alle prime raccolte punti, tra le quali il famoso concorso «una giornata con il tuo calciatore preferito». Nel 1964 arriva la Nutella, anche questa come versione industriale di un prodotto tipico della tradizione: la crema spalmabile sulla fetta di pane. Un’altra merendina firmata Ferrero è la Fiesta, che mima il tipico dolce con dentro un pochino di liquore e ricoperto di cioccolato. Le caramelle Rossana, tributo zuccherino all’amata di Cyrano de Bergerac, i Ringo, il cui nome Mario Pavesi prese in prestito da Ringo Star, per sfondare tra i giovani e ancora i Togo, mix di esotismo africano e di strizzata d’occhio al lessico giovanile dell’epoca.

L’èra delle pubblicità 

Negli anni Ottanta sfonda la Mulino Bianco, presentando una selezione di brioche, biscotti e cornetti, elegantemente presentati come opera di mugnai d’altri tempi e madri angeliche. E poi via fino agli anni Novanta, forse il decennio d’oro delle merendine: o quanto meno delle loro pubblicità onnipresenti in televisione con jingle accattivanti che ronzavano in testa per settimane. La Motta lancia il Maxibon, con uno Stefano Accorsi da spiaggia e lo slogan «Tu gust is megl che uan». E poi ancora Ferrero con i Kinder versione frigo: Pinguì (pubblicità con pinguini dispersi per la penisola italiana in un’estate afosa: «Un pinguino che fa l’auto stop? Ma dai…»), fetta al latte (con l’atleta Fiona May che ne addenta uno dopo gli allenamenti) e Kinder Paradiso («Ma tu riesci a fare la torta ogni giorno? No, in frigo tengo Kinder Paradiso, la merendina preparata come farei io»). 

Insomma l’offerta si diversifica, si rinnova, eppure le merendine best-seller sono sempre le stesse: siamo tutti figli di almeno una di loro. Se c’è un prodotto alimentare, tolta la pasta, che gode di enorme longevità, buona tenuta sul mercato nonostante le tendenze salutiste e massima fedeltà del consumatore è proprio la merendina. I motivi sono tanti: in primo luogo i prezzi bassi permessi dalla produzione di scala, la praticità, il buon sapore. Ma sarebbe inutile negare che la pubblicità delle merendine, l’universo estetico che è stato loro creato attorno, la furbizia con cui sono state lanciate sul mercato, è una delle chiavi del successo.

Immaginario italico

«La merendina è entrata nella cultura alimentare ma anche nell’immaginario degli italiani» continua Scarpellini. «Sono prodotti nati nel pieno del boom economico, sostenuti da una fortissima pubblicità televisiva, cosa che allora era una novità. Le merendine venivano presentate ai bambini durante Carosello come qualcosa di altamente desiderabile, associate a personaggi dei cartoni animati che i bambini amavano. Per molti anni Topo Gigio fu il volto dei Pavesini. Si potrebbe fare una storia anche solo delle pubblicità di questi prodotti alimentari. In poche parole si sviluppa in Italia l’idea che mancherebbe qualcosa se mancasse la merendina al bambino». 

«Tutto il giorno fuori casa, a pranzo un panino al volo e adesso…non ci vedo più dalla fame!»: potremmo dire tutti in coro che la soluzione è Fiesta! Non importa se non ci crediamo più, se in cucina abbiamo ormai un’altra consapevolezza, una maggiore sensibilità ambientale, un’attenzione per una dieta sana che teme i gassi idrogenati. Non importa perché le merendine sono altrove, hanno uno spazio sacro nei cassetti della memoria. Se la radice etimologica è in merere, meritare, la merendina conserva quella promessa di gratificazione, di premio, anche se da decenni è pane quotidiano. Nel 1970 si producevano 40mila tonnellate di merendine, nel 2010 le tonnellate erano 217. Non c’è nessuna crisi, c’è anzi tutto un lessico famigliare, un’idea di casa, d’infanzia, di cura, legata a questi dolci confezionati a cui affidiamo l’arduo compito di ricordarci chi siamo stati, quando ancora non avevamo l’età per preoccuparci di noi stessi e del mondo. Quando eravamo bambini, un pomeriggio di maggio, non ancora nevrotici, non ancora stanchi, con un succhetto in una mano e una merendina nell’altra. 



 





 

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