Si è aperto davanti alla corte d'Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, il processo a carico di 105 persone, uomini e donne dello stato, coinvolte a vario titolo nel pestaggio che si è consumato nel carcere il 6 aprile 2020.

A processo c’è l’intera catena di comando dell’istituto di pena Francesco Uccella, gli agenti della polizia penitenziaria e l’ex provveditore regionale della Campania.

Quel giorno quasi 300 poliziotti penitenziari, provenienti anche da altri istituti, sono entrati in carcere e per oltre 4 ore hanno massacrato di botte e colpi di manganello i detenuti, una mattanza documentata dai video che Domani ha pubblicato nel giugno del 2021.

I reclusi protestavano e chiedevano, dopo il primo caso di contagio in carcere, mascherine e dispositivi di sicurezza.

L’udienza è iniziata alle dieci, nell’aula bunker che ha ospitato il processo Spartacus, il dibattimento che ha messo in ginocchio il clan dei Casalesi.

Per due ore il presidente Roberto Donatiello, a latere Alessandro De Santis, ha scandito i nomi degli imputati, delle parti offese, degli avvocati e delle associazioni che si sono costituite parte civile.

A processo c’è l’ex provveditore, Antonio Fullone, il commissario coordinatore della polizia penitenziaria del carcere, Gaetano Manganelli, il comandante del nucleo traduzioni, Pasquale Colucci, le comandanti dei nuclei operativi e parte del gruppo di supporto e interventi, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato.

Agenti e componenti del vertice dell'istituto, in tutto 77, sono stati sospesi dal ministero, nel giugno 2021, quando il giudice ha disposto le misure cautelari mentre altri hanno continuato a lavorare con avanzamenti di carriera.

Ora si ritrovano a processo insieme anche a medici e funzionari. Rispondono, a vario titolo, di tortura aggravata, falso in atto pubblico, favoreggiamento personale, lesioni, maltrattamenti, calunnia e falso.

Il pestaggio

Il 6 aprile 2020 c'è stata una vera e propria mattanza di stato con quattro ore di pestaggi contro detenuti inermi, picchiati in ogni angolo del reparto Nilo dalle scale all'area socialità, dai corridoi alle celle.

Barbe tagliate, disabili colpiti con manganelli, capannelli di agenti che infliggevano ogni tipo di violenza e umiliazione ai reclusi.

Ma non è finita con il pestaggio, si è scritta nelle ore successive un'altra pagina che trova spazio nei faldoni del processo: il depistaggio. False informative, foto di pentolini d’acqua fatti passare per recipienti d’olio bollente, video e scatti manomessi, materiale che doveva servire a giustificare quanto accaduto il 6 aprile.

Una ricostruzione alla quale ha creduto il governo, allora a guida M5s-Pd, che in aula, il 16 ottobre 2020, rispondendo a un’interrogazione parlamentare ha parlato di ripristino della legalità.

Le opposizioni, Matteo Salvini in testa, hanno sempre espresso vicinanza e solidarietà agli agenti diffondendo la tesi della protesta violenta dei detenuti e del lavoro egregio svolto dai poliziotti penitenziari per contenerla.

Era una menzogna e adesso un processo accerterà le singole responsabilità, ma il pestaggio è un fatto accertato e consegnato alla storia.

L’udienza

Durante l’udienza si sono costituiti parte civile altri venti detenuti. Le difese, invece, hanno sollevato diverse questioni a partire dalla nullità del rinvio a giudizio perché indisponibili tutti i filmati del giorno del pestaggio, ma anche per il mancato deposito di tutti i brogliacci.

È stata posta una questione anche in merito alla costituzione di un’associazione come parte civile, così come è stata chiesta l’estromissione di alcune parti che si era già costituite come il garante nazionale per i detenuti e il ministero della Giustizia.

Alcuni avvocati di difesa hanno chiesto l'incompetenza della corte d’Assise, questioni che già erano state sollevate e discusse durante l'udienza preliminare.

In quella sede il giudice, che ha disposto il rinvio a giudizio, aveva accolto la tesi dell'accusa che ha contestato ad alcuni imputati il reato di tortura con l’aggravante per la morte del detenuto algerino, Lamine Hakimi, che si è spento il 4 maggio 2020 per l'assunzione di un mix letali di farmaci, ma anche a seguito del violento pestaggio.

Le questioni sollevate saranno discusse nella seconda udienza, prevista il prossimo 14 dicembre. A inizio ottobre, la procura ha chiesto la proroga delle indagini per altri 41 indagati, identificati successivamente, un altro filone d'indagine che potrebbe concludersi con una nuova richiesta di rinvio a giudizio e l’apertura di un secondo processo sulla mattanza di stato.

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