Nel bel mezzo della festa si deve festeggiare; non si cavilla sul bicchiere in più, la parola scelta senza troppa cura o l’accesso di entusiasmo contagioso che estremizza la gioia e ricerca l’assoluto del “mai visto”, del “migliore di sempre”, del “giorno più bello” tendendo a dimenticare il resto del vissuto: la vittoria di Panatta su Borg a Parigi nei quarti, anno 1976, e il successivo trionfo in finale; lo scalpo di Serena Williams conquistato da Roberta Vinci in semifinale agli Us Open 2015 e la finale vinta da Flavia Pennetta; il trionfo di Francesca Schiavone al Roland Garros 2010.

Jannik Sinner, che non è di San Candido ma di Sesto Pusteria – il primo è solo l’ospedale in cui è stato messo al mondo – con l’impatto dell’ultimo dritto che pareva una schioppettata e ha lasciato l’impotente Daniil Medvedev a metri dal punto di atterraggio, costretto a un’altra resa dolorosa dopo lo sciupìo (quello, colpevole; questo, no) della finale del 2022 contro Rafa Nadal, ha innescato una reazione da gioia repressa per decenni e rimasta compressa sotto un tappo a cento atmosfere, finalmente libero di volare nell’aria con un botto che, da Melbourne, si è sentito fino a qui. Niente di male, in tutto questo.

L’esaltazione popolare, anche con i suoi eccessi e il portato di una disciplina antica, complicata e non maneggiabile da tutti quelli che non ne hanno conosciuto le complicazioni e gli anacronismi – il rispetto dell’avversario, le scuse per i colpi fortunati, il silenzio durante il gioco, il codice pressoché cavalleresco – ha prodotto una giornata di fuochi artificiali: dapprima la delusione per lo svantaggio di due set a zero, oggettivamente sorprendente, e lo scorno all’idea di dover rimandare nuovamente un appuntamento con la storia che, l’ultima volta nel quale era comparso alla vista del mondo, l’Italia era alle prese con le dimissioni del governo di Aldo Moro e la censura giudiziaria imponeva il rogo delle pellicole di Ultimo Tango a Parigi, perché ritenute contrarie alla morale pubblica.

Per un’ora e mezza, parte del pubblico da divano si era convinta di assistere all’ennesimo scorno per mano di un bidone. Salvo doversi ricredere, grazie al respiro lungo concesso dalla formula Slam che, poi, è quella del tennis come è stato pensato, nessuna vittoria prima del terzo set conquistato da uno dei contendenti.

Un ragazzo normale

Da giocatore negato e impaurito a eroe dei due mondi, Jannik Sinner è stato celebrato da giornali sportivi, generalisti, economici, da siti specializzati, di gossip, di motori e di alimentazione sana. Gli hanno fatto i complimenti le stelle dello sport, del cinema, il papa; Amadeus lo ha invitato a Sanremo (per cortesia, no), certi politici coraggiosi (nel senso deteriore) se lo sono intestato nel manifesto elettorale come esempio dell’orgoglio italiano.

Senza allargare eccessivamente il discorso, da più parti si è notata la tendenza a centrare la narrazione del trionfo agli Australian Open come la saga di un ragazzo normale che si ritrova, un bel 28 di gennaio del 2024, con in mano la corona e lo scettro di fenomeno del tennis, capace di annichilire il padrone del torneo Novak Djokovic, leggenda da 24 Slam, e uno dei migliori giocatori “cementari” del circuito, appunto Medvedev.

Un concetto condito da dichiarazioni smorza-eccessi dello stesso Sinner: ha ringraziato i genitori, un cuoco e una lavoratrice di un rifugio dolomitico, per la occasione concessagli; si è ripromesso di festeggiare poco e di tornare a lavorare al più presto, insomma, ha nutrito la versione “normalizzatrice” dell’evento.

Da quell’approdo, il passo successivo è intingere nella retorica del “se ci credi, ce la fai”. Lavorare duro per raggiungere i propri sogni, ecco il messaggio gridato al mondo da Jannik Sinner con il suo abbandono sul campo, gli occhi puntati al cielo che aveva appena toccato con una racchetta.

Un messaggio falso

È tutto bello e fascinoso, ma non vero. Jannik Sinner è, con buone probabilità, un ragazzo normale al microfono, o mentre mastica sushi durante l’intervista con Eurosport e spiega che ha parlato poco con mamma perché erano a pranzo a festeggiare e non li voleva disturbare (sic).

Forse, lo è in tutte le altre attività della sua vita, ricordate e presentate al pubblico in queste ore per rievocare gli anni della costruzione: la lontananza da casa, i soldi scarseggianti, la necessità di imparare a fare la spesa, a farsi da mangiare da solo e rassettare la camera divisa con altri ragazzi, pure loro con addosso la stessa passione e garra per il tennis.

Ma la normalità finisce lì: Sinner è un concentrato di genetica rarissimo, un pezzo unico di mezzi e volontà. Tanto è vero che, insieme alla riproduzione seriale di immagini del campione australiano all’opera nella Rod Laver Arena, sui social è un florilegio di immagini tirate fuori dai telefonini: io e Jannik al torneo di Polentate di Sotto nel 2016, io e Sinner finalisti al Mezzamortazza, mio figlio col più forte giocatore del mondo al Memorial Canederlo d’Oro.

Se si potesse condurre un esperimento su un campione rappresentativo dei nati nel 2001 e gli si facesse ripercorrere, pari pari, il cammino di Sinner (stesso ambiente, stessi maestri, a partire dal brillante Heribert Mayr che già scoprì Andreas Seppi e altri, stessi allenamenti, pure la cucina di papà e il letto preparato da mamma) è certo che nessuno di loro si sarebbe, comunque, neppure avvicinato all’esplosione del fuoriclasse che, ormai, pure le Americhe ci invidiano.

Michelangiolesco

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Dopodiché, attenzione anche alla litania dell’esempio. Sinner è un artista e, dell’artista, difficilmente si possono copincollare i sani valori, magari nella vana speranza di ereditarne anche le qualità. Indubbiamente è un atleta con basi profonde di serietà e dedizione, e di ambizioni tanto lungimiranti da fargli già affermare di essere tutt’altro che appagato e distratto da un successo simile, per quanto clamoroso e infrequente.

Ma è la sua eccezionalità a farne, appunto, un protagonista di arte plastica, nella specie lo sport del tennis, e non uno che semplicemente ci ha creduto o ha sudato di più. Al limite, se ne potrebbe scalare la mentalità: se tratti i tuoi talenti come fa Jannik Sinner, probabilmente diventerai la miglior versione possibile di te stesso. Che potrebbe essere un onesto seconda categoria, per restare nello sport ora sulla bocca di tutti.

Sinner è il figlio del vicino che ti porta le borse del verduraio in casa e ama farsi una birretta con gli amici del paese, ma come Federer si divertiva a giocare a carte nel paesino: un tratto di ordinarietà e di consapevolezza lo descrive, sì, ma in un contesto michelangiolesco. Di persona, come diceva di sé il recalcitrante Nadal, «normale che fa cose non normali».

I loro percorsi non sono alla portata di tutti i disposti a sacrificare giovinezza, amicizie e adolescenza in nome di un progetto, ma solo dei prescelti dalla natura. Rarissimi, non riproducibili per imitazione. Molto, ma molto più facile è limitarsi ad ammirarli e, per chi ci crede, ringraziare per non aver fatto passare la solita cicogna vendicativa un parallelo più su, o più giù, di Sesto Pusteria. A due chilometri in linea d’aria dall’Austria: ci è mancato davvero poco.

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