Juventus in vendita. No, voci prive di fondamenti. Un gioco delle parti consumato nel giro di poche ore ha scandito un lunedì diverso per il mondo juventino. L’indiscrezione piazzata in prima pagina dal Giornale, i cui cronisti hanno certamente attinto a fonti credibili, è stata immediatamente rintuzzata dalla comunicazione di Exor, la holding della famiglia Agnelli cui la società bianconera fa capo. Una smentita di prammatica che non allontana lo scenario e pone la questione: la Juventus è davvero in vendita?

Si tratta di un interrogativo cui potrebbero rispondere soltanto i diretti interessati, che ovviamente in questa fase direbbero tutto fuorché la verità. Dunque meglio riflettere su altro. Per esempio, sul perché la (eventuale) cessione avvenga in questa fase storica del club bianconero e del calcio italiano.

Ma anche sull’anomalia che nel corso dell’ultimo trentennio è diventata la Juventus, la società del calcio italiano che prima di tutte si è de-territorializzata e globalizzata, ma cionondimeno ha mantenuto una forte radice di tradizione perché continua a incarnare un modello di capitalismo familiare.

Chi la compra?

LAPRESSE

Partiamo dall’interrogativo che da ieri mattina circola sia negli ambienti finanziari che nel mondo del calcio: chi potrebbe essere l’acquirente della Juventus?

Nell’estate dominata dai sauditi il pensiero galoppa immediatamente verso Riad. Un’ipotesi di scuola, che tale rimane allo stato delle cose. Per il momento basti ricordare che negli anni recenti il Public Investment Fund (Pif) saudita è stato accostato dapprima all’Inter e poi alla Fiorentina.

Le indiscrezioni non hanno avuto seguito e inoltre dalla società viola giunsero forti smentite. Certo non sarebbe da sorprendersi se gli Al Saud volessero diversificare il portafoglio di proprietà calcistiche, aggiungendo al Newcastle United un altro club che partecipa a una delle principali leghe europee. Ma il discorso sulla prospettiva saudita si ferma qui.

Vanno però tenuti in considerazione due elementi: che la Juventus, nonostante si trovi in una fase non brillante della propria storia e debba fare i conti con una situazione finanziaria critica, rimane un club d’eccellenza internazionale e come tale dovrebbe essere pagato; e che non si vede in circolazione soggetti italiani in grado, o desiderosi, di effettuare nel calcio un investimento così impegnativo.

Dunque, qualora davvero la Juventus dovesse essere ceduta, è molto probabile che finisca in mani straniere.

Perché adesso

LAPRESSE

L’ultimo, orribile triennio della società bianconera, segnato dallo sconsiderato tentativo di dar vita a una Superlega europea per club e dalla vicenda delle plusvalenze, ha lasciato un segno pesante sulla proprietà e gli azionisti.

Che continuano a scontare le scelte clamorosamente sbagliate messe in fila dall’ultimo Agnelli (Andrea) a partire dall’estate del 2018, quella in cui ai conti societari venne legato un masso al collo, costituito dall’acquisizione e dal salario di Cristiano Ronaldo.

I due aumenti di capitale sottoscritti nel 2019 e nel 2021 per complessivi 700 milioni di euro hanno soltanto arginato la sofferenza dei conti, provocando il malumore degli azionisti. Inoltre, lo stato di difficoltà finanziaria ha avuto come naturale conseguenza un ridimensionamento tecnico, dato che in questa fase la società bianconera non può spendere cifre sostenute per acquisizione di nuovi calciatori e per i loro salari.

L’incidenza di questo momento negativo anche in termini di risultati sportivi, che fra l’altro rischia di prolungarsi, potrebbe essere determinante per orientare verso la cessione della società. Che certamente in un altro momento sarebbe stata venduta meglio, per un valore nettamente più alto. Ma è altrettanto vero che in un altro momento, di alta salute sportiva e finanziaria, difficilmente si sarebbe ipotizzata una vendita della Juventus.

L’anomalia fra tradizione e modernizzazione

LAPRESSE

Ma che tipo di società di calcio è, oggi, la Juventus? Risposta: un’anomalia vivente, un mix di tradizione e modernizzazione che è riuscito a funzionare fino a che si è avuto l’accortezza di mantenere un equilibrio fra le due spinte opposte.

La società bianconera è stata la prima in Italia a assecondare una fra le spinte principali della globalizzazione: la de-territorializzazione. Non è più un  club torinese da circa un quarto di secolo, cioè da quel giorno di febbraio 1997 in cui si disputò a Palermo la finale di ritorno della Supercoppa Europea contro il Paris Saint Germain.

Allora il trofeo veniva assegnato al termine della doppia gara. E poiché all’andata i bianconeri avevano vinto 6-1 al Parco dei Principi si temeva che la gara di ritorno, nell’allora Stadio delle Alpi, si giocasse davanti a spalti semivuoti. Da qui la decisione di portare la squadra in una piazza che da decenni si trovava fuori dal grande calcio, e di puntare al richiamo della vasta colonia juventina di Sicilia.

Prendeva così corpo l’idea della entertainment company prefigurata dall’amministratore delegato dell’epoca, Antonio Giraudo, già proiettata verso la Superlega i cui primi germogli maturavano in quei mesi. Ma questa spinta verso l’iper-modernizzazione si coniugava con la permanenza di un modello di capitalismo familiare che man man scompariva dalla scena.

Giusto quest’anno ricorre il centenario dall’inizio del rapporto fra gli Agnelli e la Juventus. Che col taglio del traguardo di un secolo di storia giunga la prospettiva della cessione è qualcosa di più che simbolico.

© Riproduzione riservata