«Non tutte le scuole hanno come missione primaria quella di preparare i propri studenti alla prosecuzione in corsi universitari. Alcune, come gli istituti professionali, perseguono principalmente l’obiettivo di favorire l’ingresso sul mercato del lavoro dei propri diplomati. (…)Pertanto, non avrebbe senso valutarli primariamente in base al criterio dei risultati universitari. All’opposto, quasi tutti gli studenti dei licei classici e scientifici proseguono gli studi». (Eduscopio, 2024).

Ma se si facesse una classifica delle scuole che hanno il compito indiretto di rispondere alle necessità delle fasce della società considerate più fragili, i professionali probabilmente sarebbero in cima. E sarebbero in cima anche se il criterio fosse quello di chi ha più studenti con meno privilegio. Perché i dati ufficiali del ministero e quelli di varie ricerche dicono che gli adolescenti a rischio di discriminazione si concentrano principalmente negli istituti professionali e nei centri di formazione regionale. In questi giorni circa mezzo milione di studenti si appresta a scegliere la scuola superiore. Un momento determinante nelle traiettorie di vita futura degli studenti, ma anche una fotografia delle diseguaglianze economiche, sociali e culturali che esistono nel paese. La scelta della scuola superiore di fatto è un sistema di segregazione che finisce per rendere solo più definitivi i meccanismi precedenti di differenziazione che esistono tra città e città, quartiere e quartiere, scuola e scuola, classe e classe, banco e banco.

Questione di reddito

In un articolo dei giorni scorsi sul Corriere della Sera, la scrittrice Silvia Avallone parla del liceo classico come vero ascensore sociale, come luogo dove c’è ancora la possibilità di avere tempo per esercitare il pensiero. Ma ad oggi rischia di essere l’ascensore per un rooftop bar esclusivo, disponibile per pochi. Solo l’8,7% degli studenti del liceo classico proviene da famiglie della classe del lavoro esecutivo, oltre il 90% viene da famiglie di classe media e elevata.

Una parte della “scelta” della scuola superiore si gioca quindi sulle condizioni economiche delle famiglie. Se guardiamo infatti ai professionali solo l’11% degli studenti ha dei genitori con un titolo superiore al diploma (AlmaDiploma, 2023). Ma non solo, gli istituti professionali rispondono al diritto all’istruzione del maggior numero di studenti con disabilità, sono il 7,7% sul totale mentre nei licei il dato scende all’1,4% (Miur, 2021). Un altro fattore determinante nella scelta sembra essere il posto in cui si nasce, la presenza di studenti con cittadinanza non italiana nei licei (tenuta molto alta dai licei artisti e linguistici) è del 4,9% mentre sale al 13% nei professionali e al 27,8% nei corsi di formazione regionale.

Così in questi giorni di scelte, ci sono questioni che non vengono esplicitate durante l’attività di orientamento per famiglie e studenti. La prima è che una parte delle motivazioni che spingono verso una scuola piuttosto che un'altra è riconducibile agli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona. E poi, ma solo poi, in base alle inclinazioni e ai talenti.

E che questa scelta ha effetti anche sul dopo maturità: la percentuale di abbandoni tra i già pochi studenti dei professionali che scelgono l’università è del 29,1% contro il 3,6% di chi proviene dai licei. A confermare che tutti quegli ostacoli difficilmente spariscono durante i cinque anni di superiori e con l’arrivo della maggiore età.

Un anno in meno

La seconda questione è che le scuole professionali e i docenti e le docenti che ci lavorano sembrano aver ricevuto il compito enorme di rispondere ai problemi della società mentre nelle altre scuole si lavora per preparare la classe dirigente del paese. E la riforma Valditara indebolisce ancora di più la loro possibilità di far fronte all’insieme di storie, esperienze e provenienze diverse che riempiono le aule dei professionali. La scelta di togliere un anno di scuola, accorciando ancora di più il tempo tra l’infanzia e il lavoro, così come di aprire a docenti che provengono dalle imprese ma senza una formazione didattica, sembra rispondere più a un disegno ideologico che a un’esigenza pedagogica. Un disegno che renderà ancora più evidente questo meccanismo di segregazione.

Perché alle medie impari che alcuni tuoi compagni possono avere gite costose, ripetizioni, esperienze, libri e attività extrascolastiche che tu non puoi avere. Ma le relazioni e le amicizie che nascono tra i banchi delle elementari e delle medie in qualche modo tengono e creano “bolle” dove le diversità hanno ancora la possibilità di incontrarsi e riconoscersi. Con la fine delle medie impari però che quelle cose che non puoi avere vi divideranno, perché non riguardano solo te, ma la tua famiglia, la tua lingua, il titolo di studio o il lavoro dei tuoi genitori. E senza saperlo ti ritrovi in una categoria.

Impari che a un certo punto, a 14 anni, attraverso la scelta della scuola superiore, non solo devi cercare di azzeccare una professione futura, ma ti ritrovi anche a comunicare al mondo il tuo status sociale e a segnalare la tua appartenenza a una classe piuttosto che a un’altra.

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