Nel registro degli indagati non ci sono ancora nomi, ma i primi saranno nomi di cittadini cinesi. Nel grande affare delle mascherine fallate, spacciate come dispositivi di protezione e distribuite a medici e infermieri in prima linea contro il covid, la vera sfida è trovare qualcuno che paghi, di certo c’è solo lo spreco di denaro pubblico e il rischio mortale al quale sono stati esposti medici e infermieri. L’indagine della procura di Gorizia, nata per l’importazione di prodotti contraffatti e che ora contesta la frode in pubbliche forniture, ha portato a ulteriori sequestri di mascherine.

Un’inchiesta che si incrocia con quella sul traffico d’influenze che vede già coinvolto, a Roma, Mario Benotti, l’ex giornalista Rai, ottimamente introdotto nel mondo politico. Benotti è indagato, insieme ad altri soggetti, in un’inchiesta della procura capitolina per aver ricevuto una parcella pari a 12 milioni di euro (72 milioni considerando gli altri indagati), per aver mediato nella compravendita di milioni di dispositivi destinati alla struttura commissariale di Domenico Arcuri, sfruttando proprio il rapporto di conoscenza con il commissario.

Ora le due inchieste, quella di Gorizia e di Roma si incrociano. Le mascherine sequestrate, infatti, sono parte degli 800 milioni di dispositivi arrivati in Italia grazie ai buoni uffici di Benotti. I finanziari, a Gorizia, stanno individuando i rappresentanti legali delle società fornitrici, di alcuni mancano alcuni dati come il codice fiscale, prima di iscriverli nel registro degli indagati. La difficoltà è che sono tutti cinesi, così come i consorzi, e questo aprirebbe un lungo iter per la notifica degli atti con il rischio di celebrare un eventuale processo a fantasmi. Non sono fantasmi, invece, i soldi, tanti che sono stati pagati ai consorzi cinesi e che in parte, sono finiti, ai mediatori.

Così come non sono fantasmi neanche i dispositivi che continuano a finire sotto sequestro. La guardia di Finanza di Gorizia, su ordine della locale procura, guidata dal procuratore Massimo Lia, ha completato ieri il sequestro dei dispositivi ancora nei magazzini, sono stati messi sotto sigillo altri 50 milioni di pezzi che si aggiungono ai 65 milioni già sequestrati, qualche settimana fa. In tutto fanno 115 milioni di dispositivi e 300 milioni di euro buttati dal commissariato, guidato da Arcuri, che ha creduto di comprare mascherine protettive e, invece, ha comprato merce fallata.

Merce che aveva, in alcuni casi, «una capacità filtrante addirittura dieci volte inferiore rispetto a quanto dichiarato, con conseguente rischio per il personale sanitario che le aveva utilizzate nella falsa convinzione che potessero garantire un’adeguata protezione», scrivono gli inquirenti. Se 115 milioni sono finiti sotto sigillo, altri 135 milioni di mascherine, infatti, sono state consegnate e utilizzate negli ospedali, residenze per anziani, ma sono finite anche sui visi di dipendenti di altre amministrazioni dello stato. Sotto accusa sono finiti 12 modelli di mascherine, nove erano stati acquistati dal commissariato, altri tre dalla protezione civile. 

Roma indaga per frode

Dopo aver eliminato dalla circolazione i dispositivi contraffatti, toccherà alla procura di Roma, procuratore aggiunto Paolo Ielo, già titolare dell’indagine sul traffico d’influenze, provare a ricostruire la catena di responsabilità. C’è un fascicolo conoscitivo aperto anche a Roma per frode in pubbliche forniture, sugli eventuali soggetti coinvolti c’è il massimo riserbo. Il rischio è che in realtà non paghi nessuno, perché uno scudo emergenziale protegge ogni protagonista della vicenda. Non sembra responsabile il Commissario, sia perché protetto da uno scudo, sia perché, come fa sapere l’ufficio stampa di Invitalia, i controlli erano in capo al Comitato tecnico scientifico. Il Cts ha validato la qualità delle mascherine affidandosi a un mero controllo documentale.

Le carte erano in ordine, ma le mascherine erano contraffatte. Il Cts, grazie dalla deroga prevista dal regime emergenziale si è basato sull’autocertificazione del produttore e dell’importatore, cioè i consorzi cinesi. Gli inquirenti scandagliano ogni piega del contratto per capire le responsabilità eventuali in seno ai mediatori, ma anche alla stazione appaltante: il commissariato. Il principio adottato dalla procura di Roma è esplicitato nei provvedimenti giudiziari assunti in questi mesi dai magistrati. Se un soggetto prende accordi con la pubblica amministrazione garantendo, attraverso il contratto sottoscritto, una tempistica e una qualità specifica del prodotto, rischia l’incriminazione per frode in pubbliche forniture quando non adempie a quanto sottoscritto. Portare in Italia mascherine contraffatte spacciate per dispositivi di protezione rientra in questa cornice giuridica, ma trovare i responsabili in sede penale, tra scudi e salvacondotti, sembra una missione impossibile.  

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