Il Covid-19 è una malattia per molti aspetti ancora misteriosa. Ma di una cosa i medici sono certi: le sue conseguenze durano a lungo. Migliaia e migliaia di persone in tutto il mondo continuano a manifestare sintomi mesi dopo la fine della fase acuta della malattia. Alcuni si sentono affaticati o senza fiato, hanno dolori al petto o una tosse che non sembra passare mai. Altre conseguenze sono più subdole. Si manifestano sotto forma di insonnia, flashback, stato di allerta continuo, gli stessi sintomi che mostrano i militari che sono stati in azioni di guerra e le vittime di catastrofi naturali.

L’Italia è uno dei paesi all’avanguardia nello studio di questi effetti a lungo termine. Secondo uno studio realizzato dal gruppo di medici del policlinico Gemelli di Roma che lavora al day hospital post Covid dell’ospedale, pubblicato sul prestigioso Journal of the American Medical Association, quasi il 90 per cento dei pazienti esaminati presentava almeno un sintomo e il 50 per cento ne presentava almeno tre. Abbiamo intervistato il dottor Matteo Tosato, geriatra, e la dottoressa Delfina Janiri, psichiatra, per farci raccontare cosa succede a chi non riesce a liberarsi della malattia e come viene trattato.

Di cosa si occupa la vostra unità?

Matteo Tosato: Siamo nati alla fine dello scorso aprile per dare una per dare una risposta ai pazienti Covid dimessi dai reparti che ci chiedevano quali ulteriori controlli fare se non sentivano bene. Molti di loro erano terrorizzati dall’idea di tornare a casa e noi medici eravamo altrettanto spaventati. Non sapevamo cosa consigliare e non conoscevamo quali potevano essere gli esiti della malattia a distanza di tempo. È stato allora che al professor Francesco Landi, direttore dell’unità di riabilitazione e medicina fisica del Gemelli, è venuta l’intuizione di creare il day hospital post Covid, la prima struttura multispecialistica di questo genere in Italia, quella che ha fatto da battistrada a tutto quello che è venuto dopo.

Come funziona il day hospital in pratica?

MT: In genere trattiamo pazienti dopo due-tre mesi dalla fine delle fase acuta della malattia. Facciamo tre ricoveri mattutini di day hospital in tre giornate differenti. Nel corso del primo accesso facciamo analisi del sangue, elettrocardiogramma e raccogliamo la storia clinica del paziente, prima, durante e dopo il Covid. Nel secondo accesso ci occupiamo della parte respiratoria: facciamo una tac al torace, prove di funzionalità respiratoria, una visita pneumologica, una con un otorino, per valutare olfatto e gusto, e infine una valutazione ecocardiografica. Nel terzo accesso i pazienti vengono visitati da un neurologo, un gastrointerologo, uno psichiatra, un infettivologo e un internista. A questo punto si tirano le somme della valutazione e si suggerisce un profilo più personalizzato per fare ulteriori controlli o terapie.

Quali sono i principali sintomi persistenti che avete trovato? E cosa si è scoperto sulle loro cause?

MT: Soltanto il 12 per cento dei pazienti che si sono rivolti a noi non ha più alcun sintomo, mentre più della metà presentava più di tre sintomi. Il principale è l'affaticamento, seguito dalle difficoltà respiratorie, dai dolori articolari e dai dolori al petto. Percentuali significative, un po’ sotto il 20 percento, avevano tosse o anosmia. Non ci sono risposte univoche sulle cause. L'affaticamento, ad esempio, è probabilmente causato da squilibri infiammatori che impiegano più tempo del previsto a guarire. Ora, a sei mesi di distanza dalla maggioranza dei contagi, potremo capire di più e valutare se e quando si arriva a un completo recupero. 

Quali sono invece le conseguenze psicologiche?

Delfina Janiri: Quando abbiamo iniziato a lavorare ci aspettavamo di vedere pazienti con sintomi dell’umore, depressione, ansia, insonnia, ma ci siamo trovati di fronte a un quadro diverso. Sintomi molto specifici che appartengono alla Ptsd, il disturbo psichiatrico identificato per la prima volta durante Seconda seconda guerra mondiale, quando veniva classificato come “shellshock”, lo choc da bombardamento, e poi si è continuato a osservare nei reduci del Vietnam, in quelli di disastri naturali e in genere dei grandi eventi traumatici collettivi. Siamo rimasti colpiti nel vedere questi sintomi legati alla persistenza del ricordo traumatico nei pazienti Covid, come flashback del periodo acuto della malattia, sogni vividi dell’evento traumatico, irritamento nel ricordo dell’esposizione al trauma, stato di vigilanza e allerta continuo. Quando questi sintomi si presentano insieme, "clusterizzati”, determinano il Ptsd, la risposta che il nostro cervello dà agli eventi traumatici. La prevalenza del Ptsd nel campione dei pazienti visti da aprile ad oggi è del 30 per cento.

E come intervenite in questi casi?

DJ: I pazienti vengono prima indirizzati in ambulatori specialistici. Lì ricevono un trattamento che può essere psicoterapeutico, un percorso che porta alla rielaborazione degli eventi e delle esperienze traumatiche così che possano essere affrontate in modo più funzionale, farmacologico, intervenendo sul Ptsd ma anche si sintomi, come l’insonnia, oppure entrambi.

Chi sono i vostri pazienti?

MT: L’età media è 53 anni, ma il range va dai 18 ai 95 anni. Sono cittadini italiani, extracomunitari, classi abbienti, persone in situazioni economiche precarie: non c’è davvero una caratteristica unica che li unisca. Abbiamo una leggera prevalenza di maschi, ma sappiamo che proprio i maschi risultano un po’ più colpiti dalla malattia. Inizialmente ci occupavamo soprattutto dei pazienti Covid che erano stati ricoverati al Gemelli, ma con il passare del tempo, grazie anche al passaparola, hanno cominciato a rivolgersi a noi anche persone che erano state semplicemente in quarantena a casa. Molti dei nostri pazienti oggi hanno avuto un decorso della malattia relativamente sereno durante la fase acuta, ma hanno visto il perdurare di sintomi respiratori. Non hanno ricevuto risposte esaustive dalla sanità territoriale e così arrivano da noi disperati. Nelle mail ci scrivono che siamo la loro «ultima speranza».

Pensate di riscontrare differenze tra la prima ondata e quello che incontrerete dopo questo secondo picco di contagi?

MT: Dal momento che ho spesso lavorato nei reparti, oltre che al day hospital, posso dire che non vedo grandissime differenze nelle manifestazioni cliniche  della malattia. Qui a Roma i numeri di marzo e aprile li abbiamo già abbondantemente superati. Il Columbus, il nostro ospedale Covid-19, non aveva mai avuto tutti questi pazienti critici. Quando questa ondata finirà ci aspettiamo le stesse identiche conseguenze della prima, e quindi per noi un ulteriore sovraccarico di richieste.
 

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