È una sera del 1878. Il chimico tedesco Constantin Fahlberg ha lavorato così ardentemente da dimenticarsi di cenare. Da poco, al dipartimento di chimica della John Hopkins University, conduce analisi su alcuni derivati del catrame, sotto la guida di Ira Remsen, tra i più autorevoli scienziati del tempo. Quando finalmente la porta del laboratorio si chiude alle sue spalle e torna a casa, Fahlberg addenta un tozzo di pane. Il suo sapore è di una strana dolcezza. Così, anche l’acqua che beve per sciacquarsi la bocca e il tovagliolo che usa per pulirsi i baffi.

Lo scienziato ha appena scoperto la saccarina, primo sostituto dello zucchero e apripista della classe di dolcificanti artificiali. Un composto che cambierà la sua vita.

Se l’igiene non conta

È lo stesso Fahlberg a raccontare il curioso caso di serendipità, in due versioni ufficiali che differiscono di un unico dettaglio, spesso protagonista dell’aneddoto legato alla fortunata scoperta. In un’intervista del 1886 su Scientific American, lo scienziato sostiene di aver cenato senza prima essersi lavato le mani. Diciassette anni dopo, invece, dichiarerà di aver lavato le mani scrupolosamente e di aver perfino dibattuto con la domestica, pensando che avesse zuccherato le sue vivande. È certo, che dopo aver assaggiato quel sapore dolce nel suo solito pane, corre in laboratorio. Lì tasta il contenuto di ogni arnese lasciato sul banco, fino a ritrovare quel sapore, quattrocentocinquanta volte più dolce del saccarosio, e per questo ribattezzato con il nome di saccarina.

Paternità esclusiva

Le ricadute della scoperta di Fahlberg sconfinano dal mondo scientifico a quello politico ed economico. «In quel momento l’industria dello zucchero è il motore della rivoluzione industriale», dice Antonella Maggio, docente di Storia della Chimica all’Università degli Studi di Palermo. «Fino ad allora, il saccarosio non aveva rivali. Ma con quella scoperta, inaspettatamente, entra in scena un primo potenziale concorrente». La prima pubblicazione a sancire ufficialmente la nascita della saccarina è del febbraio 1879, a firma di Fahlberg e Remsen. Pochi anni dopo Fahlberg ne avvia la prima produzione. Accanto, però non ha più Ira Remsen, che con lui aveva guidato la prima sintesi del composto, ma un parente, Adolph List. «Fahlberg non aveva mai informato Remsen né per il brevetto, nè per la prevista commercializzazione», prosegue Maggio. «Quando molti anni dopo Remsen ne viene a conoscenza, era furioso e pare che non lo perdonò mai».

Illegale per paura

Il monopolio esclusivo di Falhberg sulla saccarina cade gli ultimi anni dell’Ottocento. Il costo del composto era maggiore dello zucchero, ma l’altissimo potere dolcificante lo rendeva nettamente più economico. Addolciva dalle ostie per gli infermi ai prodotti di pasticceria, inclusi i famosi wafer boemi. Il suo successo mina la stabilità delle lobby dello zucchero, e per questo la sua distribuzione viene limitata in molti paesi europei, fino a quando l’uso della saccarina resta concesso nelle sole farmacie, dietro prescrizione medica.

Nei primi anni del Novecento, nel cuore d’Europa, c’è un solo paese a non subire quelle restrizioni: la Svizzera. «La grande produzione di cioccolato di quel territorio permetteva più libertà sulle tasse legate allo zucchero», aggiunge Concetta Montagnese, ricercatrice all’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR. «La possibilità di produrre saccarina in quantità crea quindi le condizioni per l’inizio del contrabbando, che avrà nella Svizzera il suo punto nevralgico». Negli anni del contrabbando quella polvere bianca è distribuita alle fasce più povere della popolazione, che non possono permettersi lo zucchero a causa delle tasse proibitive. Un traffico sovrapponibile allo spaccio di stupefacenti come l’eroina, che in quel periodo si trova peraltro legalmente distribuita nelle farmacie, come antitussivo. Si legge di lunghe file di persone che attraversano le zone di confine con la saccarina nascosta negli abiti, sciolta nelle bottiglie di vino e perfino concentrata nelle grandi colate delle candele da altare.

A porre fine a questo scenario è lo scoppio della prima guerra mondiale, segnato da periodi di carestia che rendono difficile l’approvvigionamento dello zucchero. Così, i governi sospendono le restrizioni sull’uso del dolcificante, che ricomincia a godere di un fiorente commercio.

Con la chimica dalla sua parte

A rendere la saccarina un edulcorante dalla lunga vita sono le sue proprietà chimiche: è inerte, stabile alle alte temperature, non è metabolizzata dall’organismo. Ma, soprattutto, è priva di calorie. Diventa così un popolare additivo alimentare, usato in prodotti come creme, gelati, bevande. Non solo: la saccarina dà il via a una serie di dolcificanti più moderni, dall’aspartame all’eritritolo, fino alla stevia. «Nel 1972, la saccarina viene inserita tra le sostanze potenzialmente cancerogene per l’uomo, a seguito di uno studio che ne metteva in relazione l’uso di grandi quantità con il possibile sviluppo di tumori alla vescica nei roditori», aggiunge Montagnese. «Poi, i risultati degli studi non hanno confermato rischi per la salute dell’uomo e nel 1977 l’ente governativo FDA la riconosce come additivo alimentare». Nel 2001, la saccarina esce dall’elenco delle sostanze potenzialmente cancerogene.

Il light che inganna

Nella seconda metà del ventesimo secolo le abitudini alimentari della popolazione occidentale si modificano drasticamente. La carenza di esercizio fisico unita a diete molto caloriche determina un considerevole aumento di sovrappeso e obesità. Inizia così una nuova era per i dolcificanti, saccarina inclusa, che trovano uno spazio sempre maggiore nelle composizioni dei prodotti definiti “light”. «Sono alimenti che innescano un meccanismo di compensazione, per cui si tende a consumarne sempre di più», dice Laura Rossi, dirigente di ricerca presso Crea. La saccarina, quindi, ancora in vita come additivo, abitua il palato a un sapore eccessivamente dolce, ingannando l’organismo. «Se ci si abitua al dolce si tende a ricercare e preferire quella sensazione», aggiunge Rossi. «La saccarina, così come i suoi derivati più moderni, sono considerati alimenti voluttuari, cioè non indispensabili. Questo non significa eliminarli, ma evitarne l’abuso, attenzionando l’alimentazione nella sua totalità».

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