Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

Messina è appoggiata sulla punta estrema della Trinacria, eppure non vacilla affatto. Baciata in faccia dal sole e dal mare se ne sta magicamente distesa su una striscia di costa e guarda malinconicamente lo stretto. Non è la cugina più piccola di Catania, anzi diciamo proprio che le due città non sono neppure parenti. Si somigliano un po’ per via del sole e del mare. Tutto qui. Hanno invece una struttura sociale economica e psicologica profondamente diversa. Messina è pessimista e a volte rassegnata, ma spesso trova le forze per dare segnali forti. Catania si illude e ci crede ancora, ma non sempre riesce a far ricordare i tempi migliori. A Catania individualmente tutto può accadere: c’è una borghesia dominante e dalle alterne fortune, rispetto alla quale gli affari e la ricchezza svolgono il ruolo di ascensore sociale; c’è molto degrado, ma più possibilità di riuscita. Improvvisamente vengono fuori degli emergenti, prima sconosciuti, che si fanno strada e acquisiscono visibilità e potere. E i catanesi sono pronti a dire: «E chistu cu è? Di unni spuntau?» A Messina prevalgono il ceto professionale e quello dei dipendenti pubblici. Le famiglie che contano si conoscono tutte tra di loro e non ci possono essere sorprese: il posto pubblico è l’obiettivo primario. Il degrado, la povertà e le differenze di ceto sono molto più marcate e percepibili. Per intenderci: la figlia di un esponente della Messina bene non uscirebbe mai con uno di Giostra. Mentre a Catania tutto è possibile. Però quasi incredibilmente i messinesi son capaci di eleggere un Sindaco scalzo e buddhista come Renato Accorinti, o un anticonformista come Cateno De Luca.

La misteriosa Barcellona Pozzo di Gotto

Catania è culturalmente vivace, se guardiamo alla diffusione di alcuni fenomeni come concerti, teatri, artisti pop, case discografiche. Ma a Messina vi sono state espressioni culturali di élite e pure presenze istituzionali importanti, anche se di sforzi particolari per riscattare la città non se ne registrano da tempo. Anche lì non mancano le contraddizioni. L’Università – attorno a cui girano molti interessi – è stata anche oggetto di scandali, ma in alcune discipline ha espresso delle eccellenze. Basti dire che i giovani che superano il concorso in magistratura che provengono dall’ateneo peloritano sono stati negli anni grosso modo quanti quelli di Catania, che pure ha un bacino più ampio. Messina tira dritta per la sua strada e poco si cura della vicina Catania dove prevale la spensieratezza della vita mondana. Insomma luci e ombre, differenze e contraddizioni vengono fuori a intermittenza come da uno stroboscopio. D’altra parte i catanesi questa bella città affacciata sullo stretto non la conoscono proprio e spesso la snobbano, perché la ritengono la provincia babba. Ma questa in realtà è una bella favoletta che si raccontava anni fa e che ancora qualcuno torna a ripetere senza sapere di cosa sta parlando. Neppure dal punto di vista criminale si pensava che le due città, così diverse, potessero avere qualcosa in comune. Eppure non è così.

Già qualche anno fa nella provincia peloritana qualcosa di importante si era mosso. Approfittando della vivacità criminale della popolazione locale e della contiguità col vicino mandamento di San Mauro Castelverde – che si trova proprio al confine occidentale – sul territorio di Barcellona Pozzo di Gotto avvenne una importante contaminazione.

Un manipolo di criminali che si era distinto per la sua capacità venne investito del marchietto originale dell’appartenenza a Cosa nostra e costituì la prima famiglia presente sul territorio. I suoi uomini Sam di Salvo e Giovanni Rao, divennero esponenti del terrore. Ma la capacità di quel gruppetto andava bene al di là della capacità di intimidire le vittime per raccogliere fondi di estorsione. Come a Catania, i Barcellonesi si fusero in un tutt’uno con la cittadina e cominciarono a permearne in ogni sua parte il tessuto. Fecero fuori i propri nemici sul campo e anche quegli strenui oppositori che conoscendone la provenienza potevano insidiarne il potere. […].

La vicenda di Michelangelo Alfano

A Messina capoluogo invece si è sempre ritenuto che Cosa nostra non avesse mai avuto una propria famiglia. Per la verità a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, dopo essersi stabilito a Messina era cresciuto in città l’imprenditore Michelangelo Alfano, che era anche importante esponente di Cosa nostra. Era arrivato nella città dello stretto già alla fine degli anni Settanta, dopo essersi aggiudicato l’appalto per la pulizia delle carrozze ferroviarie in tutto il Sud Italia. E poi, assumendo la presidenza della locale squadra di calcio, negli anni Ottanta si era affermato nei salotti quasi impermeabili della Messina bene. Questa sua capacità di penetrazione era durata fino a che il boss Sparacio non ha deciso di pentirsi coinvolgendo pesantemente alcuni magistrati messinesi e lo stesso Alfano in una dirompente inchiesta giudiziaria. Della delicata questione si occuparono i magistrati di Catania. L’indagine che ne venne fuori colpì al cuore il sistema delle alte relazioni istituzionali di Cosa nostra, ricordando per certi versi quella del 1985 che aveva messo alla sbarra i magistrati catanesi. Vennero prima arrestati e poi processati per associazione mafiosa un sostituto procuratore nazionale, Giovanni Lembo, e il GIP Marcello Mondello, che poi sarebbero stati condannati dal Tribunale di Catania con parziale derubricazione delle accuse. Ma complessivamente, da tutte le indagini che erano state svolte negli anni, la realtà mafiosa di Cosa nostra sembrava essere limitata nel tempo e nella dimensione personale, essendo ricondotta essenzialmente alla figura dello stesso Alfano e alla sua capacità di interagire con espressioni mafiose locali come il clan capeggiato dallo Sparacio. Era invece univocamente esclusa la presenza di una vera struttura familiare e territoriale di Cosa nostra.

I fratelli e i nipoti di Nitto

Eppure nelle relazioni annuali redatte dalla Direzione Investigativa Antimafia – che raccoglievano le indicazioni provenienti da tutti gli organi di Polizia e giudiziari – si leggeva in maniera quasi monotona che il territorio era caratterizzato da bande pur agguerrite e in lotta tra loro. Una criminalità organizzata rozza e riconoscibile dunque: gruppi criminali inquadrabili giuridicamente nel fenomeno mafioso, ma senza un coordinamento generale e una gerarchia che le facesse ritenere espressione della organizzazione denominata Cosa nostra. In pratica, anche a sentire le relazioni dei procuratori generali fino al 2014, si riteneva che la mafia vera, a Messina città non esistesse. Mi sembrava un film già visto e proiettato qualche lustro fa al palazzo di giustizia di Catania.

Ma le cose non potevano stare così. Anche perché da lungo tempo Natale e Concetta Santapaola, fratelli germani di Nitto, avevano messo su radici e famiglia nella città di Messina; e questo fatto non poteva essere rimasto senza conseguenze. Natale – come ricorderanno i lettori – era stato fatto uomo d’onore insieme a Nitto nella primavera del 1962, nella stessa cerimonia in cui erano state affiliate altre sei persone, e tra di esse anche Francesco Ferrera e Natale Ercolano. Stabilitosi in riva allo stretto aveva avuto due figli, Pietro e Vincenzo, entrambi nati a Messina. I giovani Santapaola erano già conosciuti in città, ma erano stati appena lambiti da indagini e ritenuti soltanto soggetti di fiducia dell’organizzazione catanese. Di loro Santo La Causa aveva detto, nel 2014, che erano dei riferimenti per le questioni e gli affari che riguardavano la famiglia, senza però indicarli come espressione attiva di una famiglia mafiosa. Anche le dichiarazioni di La Causa quindi – sulla scorta delle informazioni che disponeva su fatti e persone di altra provincia – rafforzavano nella convinzione che non vi fosse in città una famiglia di Cosa nostra. Eppure da qualche anno era accaduto qualcosa di realmente nuovo nel panorama della mafia siciliana. I protagonisti di questa esperienza diversa erano diventati i figli di Concetta, l’altra sorella di Nitto, che era andata in sposa al messinese Francesco Romeo. Quest’ultimo era già stato coinvolto nella operazione antimafia denominata Orsa Maggiore nel 1992 e successivamente sottoposto al 41bis, ma poi evidentemente uscito dal carcere e reintegrato nel suo ambiente. E da lì in poi era calato il silenzio. E così, raccogliendo un input dei Carabinieri di Messina, la Procura iniziò quella che sarebbe stata una delle indagini più importanti per il territorio. I nipoti di Nitto Santapaola vennero posti sotto intercettazione per comprendere quali fossero i loro attuali interessi e venne fuori un mondo che nessuno si aspettava. I primi giorni di intercettazione non diedero evidenze di attività criminali, ma vedevano la famiglia impegnata in una serie interminabile di attività economiche che andavano dalle aziende edili, ai negozi di scommesse, alla gestione delle ditte fornitrici di parasanitari per conto delle ASL, fino agli interessi in società immobiliari. E già questa era una novità non da poco. Sembrava di seguire una piccola holding di attività economiche, con la particolarità che fosse gestita dai parenti stretti di uno dei boss più potenti della storia di Cosa nostra.

L'ascesa di Vincenzo Romeo

Ma il vero volto di quella organizzazione venne fuori dopo qualche tempo: quando fu evidente che qualunque ostacolo si presentasse sulla loro strada essi lo avrebbero risolto comunque. Anche solo ricordando di chi erano parenti o, se necessario, spiegandolo con una sonora lezione a chi si rifiutava di rispettare le loro imposizioni. La figura più in vista, attorno alla quale ruotavano gli interessi e le decisioni dell’organizzazione, era quella di Vincenzo Romeo: un giovane alto e sempre ben vestito, che ha fatto scuole e università e si presenta molto bene, come tutti i Santapaola di ultima generazione, seguendo alla lettera i dettami dello zio Nitto. Abituato a frequentare il ceto economicamente più abbiente, il giovane Vincenzo aveva fatto amicizia con Biagio Grasso, un imprenditore di Milazzo abile, piuttosto sveglio e amante della bella vita. È Biagio a introdurlo negli ambienti imprenditoriali del nord Italia. Tra i collaboratori vi è anche Stefano Barbera, agente della Whirpool. Poi, sempre grazie a Biagio, Vincenzo entra in contatto con Carlo Borella, che ha peso in Confindustria perché è stato presidente dei costruttori messinesi e ha ottimi rapporti nel salotto buono della finanza nazionale. Insomma il nipote diretto di Nitto stava con tutti e due i piedi dentro l’economia messinese. Da un lato controllava molte sale da gioco e slot machine; dall’altro, insieme a Grasso, diveniva socio occulto e finanziatore della Demoter, la società di Borella, una big delle costruzioni a livello nazionale impegnata in una serie di iniziative imprenditoriali in Calabria, Sicilia e nel nord Italia, tra cui nientemeno che l’autostrada Salerno Reggio Calabria e gli appalti di Milano collegati a EXPO 2010. Nel frattempo la società aveva fatto un buco da 20 milioni di euro distraendo fondi e mezzi materiali altrove. Sempre con Grasso il giovane Santapaola avviava un’iniziativa di costruzioni immobiliari e riusciva a ottenere la fornitura di immobili al Comune di Messina. Era entrato così nel meccanismo della finanza che conta, anche se il suo nome non compariva per ovvie ragioni di cautela. Manteneva rapporti con imprenditori e professionisti e cresceva, cresceva ogni giorno nella considerazione dei suoi interlocutori, tra cui ci sono anche importanti uomini di affari. Ma cresceva soprattutto nella considerazione della famiglia, perché rappresenta esattamente il modello che voleva zio Nitto: un mafioso giovane e sveglio, con una marcia in più. Uno che si muove molto bene ed è cauto in ogni sua mossa, però i metodi di Cosa nostra non li dimentica e all’occorrenza sa tirare fuori la parte violenta di sé. Di giorno fa l’imprenditore nel campo dell’edilizia e va in giro con Grasso per partecipare alla gara comunale per fornire agli sfollati gli alloggi di Fondo fucile. E di notte rompe il muso a un fornitore che aveva sospeso le consegne perché reclamava i pagamenti: le “cimici” dei carabinieri registrano in diretta le urla di quel poveretto che lo implora di smettere mentre lui lo pesta. E lo fa appositamente sotto gli occhi di Grasso, giusto per fargli capire che quel trattamento può riguardare tutti, anche lui. Non ha bisogno di far sapere chi è in città, perché tanto chi è lo sanno tutti. Un giorno rubano il motorino di un suo fratello. I ladri appartengono a una delle organizzazioni mafiose di Messina, ma appena si accorgono chi è il proprietario vanno nel panico e se la fanno letteralmente sotto. In un’altra occasione un imprenditore viene convocato da esponenti vicini alla mafia per il pagamento di un credito. Quello si rivolge a un esponente del clan Galli, una di quelle organizzazioni che nelle relazioni vengono definite “dominanti” nella mafia messinese e il cui capostipite è da tempo sottoposto al regime 41bis. Dovrebbe essere la copertura più forte che si possa avere da parte della mafia di Messina, stando a quanto è scritto nelle relazioni dell’Antimafia che riguardano la provincia. Eppure il Galli appena viene a sapere che in questa storia ci sono di mezzo i Romeo dice all’imprenditore amico suo di lasciar perdere e che lui non ci può fare niente, perché non può arrivare a quel livello. E in un’occasione avendo modo di incontrare il Romeo, si comporta come un agnellino. Ma cosa è accaduto a Messina? Chi sono questi soggetti che senza sparare arrivano a controllare la città e hanno rapporti con la parte istituzionale, mentre sono temutissimi dalle squadre mafiose in armi? Con quale metodo hanno agito? Messina apre lo scenario sulla “Mafia SpA” e lo fa in modo sorprendente.

L’”educazione mafiosa”

Stefano Barbera – il giovane manager collegato a Romeo che i carabinieri del ROS seguono in diretta con le intercettazioni ambientali – lo spiega al suo diretto superiore nell’azienda, raccontando come è nata la sua amicizia col nipote di Nitto. Si erano conosciuti per caso, perché il negozio Whirpool era sottoposto a estorsione da parte dei Santapaola: e così a Messina è entrato in campo Romeo a occuparsene per competenza territoriale. Ma tra loro nasce un’amicizia, perché è un “ragazzo normale”. Lui gli aveva raccontato che nella sua famiglia, i Santapaola, «l’educazione un po’ tutti l’abbiamo avuta in collegio dai salesiani», anche perché occorre avere certi modi e in casa si evita di dire le parolacce. Barbera ne parla estasiato, con considerazione. Non come si parlerebbe di un estorsore, ma di un amico. Un amico fidato e importante, che gli ha spiegato che a Messina «è vietato chiedere il pizzo». I soldi si fanno in un altro modo, con discrezione ed entrando nell’economia. Ma la “mafia flessibile”, “alla catanese” non rappresenta certo un superamento della violenza, è solo una sua evoluzione. La dimensione più selvaggia non viene repressa, ma solo accantonata. Rimane latente, fintanto che non c’è la necessità che venga fuori. Tanto che una volta, dopo che già era entrato sotto la protezione della famiglia catanese, il Barbera riceve una estorsione da un gruppo di temutissimi calabresi. Dà loro un appuntamento nel suo esercizio commerciale e all’incontro si presenta anche Romeo, che a un certo punto con gentilezza gli chiede di uscire dal negozio. Lui esce all’esterno e da lì sentono i pugni e i calci che vengono assestati ai temibili calabresi e gli urli di questi ultimi. Pugni e calci dati senza dire parolacce, ma che fanno male lo stesso. Da quel giorno, racconta il Barbera al suo capo area, «non ho avuto più nessun problema».

Ma poi ci sono i rapporti con ambienti professionali, con le forze dell’ordine, col mondo istituzionale che la dicono lunga. I Romeo ce la fanno a indossare la giacca e la cravatta e a parlare in italiano, la società borghese siciliana non attende altro…

Le intuizioni del giudice

Letta l’informativa dei Carabinieri del ROS, riteniamo che ce ne sia abbastanza e decidiamo di chiedere la custodia in carcere nei confronti di mafiosi e colletti bianchi, contestando il fatidico concorso esterno. Tutto questo scenario, e molti fatti concreti, portano nel luglio del 2017 all’esecuzione dell’Operazione Beta. Piombano a Messina i reporter di tutta Italia e per ventiquattro ore rimaniamo sotto l’attenzione nazionale. È un’operazione simbolica e rivelatrice di un mondo tenuto nascosto, un vero terremoto per una città che si sveglia scoprendo che Cosa nostra esisteva eccome e pure da anni, lavorando sottobraccio in modo occulto con la parte economicamente forte e con gli ambienti massonici. Gli altri gruppi mafiosi estranei a Cosa nostra lo sapevano benissimo e si guardavano bene dal farle concorrenza, seguendo una strategia chiara: la mafia militare si esponeva alla vista, rendendo invisibile l’organizzazione superiore; e quando era necessario avrebbe agito sporcandosi le mani su commissione. Il gip che mette mano all’ordinanza è Salvatore Mastroeni, un esperto di mafia, che ha lavorato a Caltanissetta dopo le stragi e che sa cogliere la dimensione socio-culturale che sta alla base. È stato presidente di sezione, ma come un buon soldato è tornato in trincea a fare il giudice. La sua ordinanza è piena di riferimenti, di emozioni, di finezze descrittive siciliane che attraverso l’intelligente interpretazione prevalgono sullo stretto diritto. Ha uno stile movimentato, quasi tormentato, un vero pugno nello stomaco per i perbenisti e i puristi della giurisdizione, e contiene intuizioni uniche. Insieme alla collega Liliana Todaro, che seguiva con me il procedimento, avevamo evidenziato ogni aspetto che dimostrasse l’unicità di quell’associazione. L’avevamo descritta sospesa come una bolla invisibile sulla città e capace di governare mafiosi di strada e ammannire il mondo che conta. Ma Mastroeni va oltre, ed espone la sua tesi. Secondo lui questa inchiesta rappresenta un vero punto di non ritorno. Il concorso esterno – inteso come modalità di fare mafia facendo affari – prende il sopravvento sulla mafia come apparato di criminalità tradizionale.

I vecchi parametri dell’intimidazione mafiosa e della condizione di assoggettamento e di omertà a Messina sono rivoluzionati. Per gli interessi di Cosa nostra ci si serve delle relazioni economiche, di quelle politiche e di quelle massoniche: i nuovi strumenti per creare forza di investimento e di aggregazione. È vietato sparare e pure armarsi e minacciare. Insomma la Cosa nostra in versione ordinaria indossa definitivamente il colletto bianco e rinuncia deliberatamente alla violenza, e in caso di necessità demanda ogni compito esecutivo alle squadre militari presenti sul territorio. Squadre mafiose sì, armate e aggressive come nella vecchia tradizione, ma pronte a colpire solo quando serve. Solo su ordine della famiglia e solo per obiettivi specifici, senza far domande. Il sistema si è rovesciato. Le strutture militari dell’intimidazione danno un “concorso esterno” alla mafia degli affari e dei colletti bianchi, solo quando questa va in fibrillazione e ha bisogno dell’aiuto esterno di quelli che sparano. La provocazione geniale di Mastroeni ribalta i termini del problema come sono stati posti dalla dottrina e dalla giurisprudenza e in un sol colpo ripropone la questione del 416-bis: un vecchio e indispensabile arnese, utile per affrontare le organizzazioni, ma non abbastanza sofisticato per stanare l’anima dei mondi di mezzo e delle atmosfere rarefatte. “Il 416-bis è vecchio”, sembra urlare l’anziano GIP, ma per ora non arrischiatevi a toccarlo, aggiungeremmo noi, altrimenti chissà che disastro. Il processo Beta tiene al riesame e tiene in Cassazione, ma con Liliana comprendiamo che tiene soprattutto per il nome dei protagonisti e per quelle piccole concessioni che hanno fatto alla dimensione selvaggia di Cosa nostra. È il richiamo ancestrale della violenza ad apporre la firma della mafia e serrare le porte del carcere dietro le spalle degli imputati di mafia, che saranno poi quasi tutti condannati. Ancora una volta il sistema catanese dimostra la sua capacità di scavalcare i dogmi della Legislazione: è lo Stato che arriva in ritardo ed è costretto a rincorrere la mafia e i suoi travestimenti.

Intanto l’imprenditore Biagio Grasso ci chiama dal carcere e ci comunica che ha deciso di collaborare con la Giustizia. La Sicilia che ha da temere trema. Il resto è storia che verrà.

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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