Quando a Torino il primo ministro del Regno di Sardegna, Camillo Benso Conte di Cavour, manteneva la promessa fatta a Napoleone III e gli regalava la Savoia, e la contea di Nizza, per avere in cambio la non opposizione francese al progetto di unificazione dell’Italia, sulle rive del Reno in Germania, un altro signore si metteva in luce. Correva l’anno 1860, si chiamava Carl Leverkus e aveva avuto un’idea meravigliosa: aprire una fabbrica di coloranti. La inaugurò in un luogo dove non c’era nulla, e attorno alla fabbrica, nel corso dei mesi e degli anni, nacque un agglomerato urbano che aveva nella fabbrica il suo centro, il suo mobilissimo motore.

Qualcosa del genere si sarebbe verificato anche in Francia, nemmeno troppi anni dopo, quando in una zona non lontana da Parigi, Billancourt, costellata da pascoli e casette sperdute, Alfred Renault avrebbe dato vita alla città-industria dove si costruivano le carrozze senza cavalli da traino. Ma perché la zona della valle della Ruhr diventasse una città vera, i suoi abitanti avrebbero dovuto aspettare il 1930, quando l’azienda fondata da Herr Leverkus era stata già assorbita dalla Bayer; la città, in onore del fondatore, fu battezzata Leverkusen. Divenne la sede della squadra di calcio che l’azienda col brevetto dell’aspirina aveva fondato come gruppo sportivo aziendale nel 1903.

Torino e Leverkusen

Oggi quella squadra è protagonista di due eventi che si incrociano. È l’unica d’Europa a non avere mai perso una partita in tutte le competizioni: Bundesliga, coppa di Germania ed Europa League, dove in finale affronterà l’Atalanta. Ma soprattutto regge sulle spalle il ruolo non comodo di mantenere alto l’umore e vive le speranze di una cittadinanza che nella sua quasi completezza è legata ai destini dell’industria. La Bayer non se la sta certo passando bene: l’ultimo bilancio riferisce di un debito di 34 miliardi di euro. È lo stesso club ribattezzato dai tifosi rivali “Neverkusen” visto che non vinceva mai nulla o quasi. Ha già conquistato il campionato e tenterà di mettere a segno il triplete.

Per contro la Juve, altra squadra simbolo di una città-azienda, non solo non è riuscita a confortare con i risultati quella parte di città che la segue, in un anno in cui è stata esclusa dalle Coppe europee per le irregolarità amministrative che hanno portato alle dimissioni di Andrea Agnelli e al commissariamento del club da parte del ramo Elkann: ma appare sempre più schiacciata dalla responsabilità di essere rimasta l’unica erede di quell’immagine di città-azienda. E di essere richiamo per un luogo che non è più ciò che era e che non ha ancora capito che cosa potrà diventare. Questa Juve dimessa e dubbiosa stasera affronterà a Roma l’Atalanta nella finale di Coppa Italia per salvare una stagione al limite del disastro (media punti da zona retrocessione nel girone di ritorno) e per provare a dimostrare di avere ancora un compito e un’anima.

ANSA

La città e la fabbrica

«Il fatto è che la Juve – spiega a Domani Marco Revelli, politologo e sociologo da sempre attento alle dinamiche che animano Torino – oggi non solo non aiuta l’umore: lo deprime. Del resto l’azienda da cui aveva avuto origine non esiste più. La Fiat era la Fabbrica Italiana Automobili Torino: ha via via rinunciato a essere fabbrica, poi a Torino e poi all’Italia».

Secondo Revelli, la Juve è stata una delle operazioni di marketing più azzeccata dagli Agnelli: «Prendere gli operai della Torino degli anni ’40, quelli che diedero vita agli scioperi del ’43 e all’occupazione della fabbrica in chiave antifascista, che erano tifosi del Toro, e trasformarli in seguaci della squadra-azienda. Ora l’azienda ha lasciato Torino, ha spostato interessi a Londra e la sede fiscale in Olanda: lo stabilimento di Mirafiori forse chiuderà per sempre. E la Juve si identifica in Torino giusto perché, come la città, non sa cosa potrà essere in futuro».

Eppure la città si muove anche con una Juve dimessa e senza volto. Secondo L’Osservatorio sul mercato del lavoro la città ha recuperato 8000 posti di lavoro dei 23.000 persi durante la pandemia. La vocazione turistica è cresciuta soprattutto grazie alla spinta di tre eventi: il Salone del libro (220.000 presenze quest’anno, quasi 10.000 più dell’anno scorso), le Atp Finals di tennis e il Kappa Future Festival, l’evento di musica elettronica che nel 2023 ha richiamato a Torino 90.000 ragazzi provenienti da mezzo mondo. Il problema è che i turisti ripartono e chi a Torino vive scorge ogni giorno di più i segni di un ingrigimento difficile da prevedere dopo il successo travolgente delle Olimpiadi del 2006, quelle che sancirono il definitivo passaggio da città-fabbrica a città turistica. Con il Toro immerso da anni in una non aurea mediocritas dal cuore pulsante a Milano, la Juventus avrebbe dovuto fare da antidoto al grigiore, mentre negli ultimi due anni si è rivelata un fattore aggravante.

Le prospettive

«Squadra e città – aggiunge Revelli – non si sono ancora riprese da quello che avvertono come un tradimento da parte della famiglia Agnelli. Scoprire che la famiglia aveva problemi col fisco o che Andrea promuoveva la Superlega ha rappresentato per molti una specie di trauma. Non che a Detroit le cose siano andate meglio. La tendenza è quella: non ci sono più le città azienda, quando resistono soffrono come a Leverkusen e quindi le squadre-azienda hanno perso parte della loro ragione di essere».

Certo: la Juve l’anno prossimo potrà prendere parte a cinque competizioni: campionato, Coppa Italia, la nuova Champions League, la Supercoppa Italiana e il neonato Mondiale per club che si svolgerà negli Stati Uniti, sempre che la protesta e il boicottaggio annunciati da Fif Pro – il sindacato mondiale dei calciatori – e World League Organisation non vadano in porto. Cinque competizioni che potrebbero contribuire a sanare l’attuale buco nelle finanze bianconere, a fine 2023 arrivato a un indebitamento netto di 326,8 milioni di euro. Allo stadio i tifosi ci vanno ancora (media di 39.600 spettatori fino ad oggi) ma il pubblico è spaccato fra pro e anti Allegri, e se si dovesse fissare un’immagine della crisi d’identità della Juve di oggi, si dovrebbe citare il silenzio con cui la curva ha assistito al demoralizzante pareggio di domenica al 94esimo minuto, 1-1 contro la già retrocessa Salernitana.

«Le squadre di Milano sono in mano all’economia asiatica e a non si bene a chi – conclude Revelli – ma chissà cosa potrebbe succedere a Torino, visto che la Juve non ha più quella natura che tanto è servita ai fondatori. A ben vedere la domanda che ci dovremmo porre è un’altra: esisterà ancora il calcio come lo conosciamo oggi, legato bene o male a delle comunità umane?». Il brivido è consentito.

© Riproduzione riservata