Questo processo non si deve vedere. Succede a Lamezia Terme, Calabria, dove è in corso il maxi-processo contro la ‘ndrangheta e i suoi referenti politici e massonici, scaturito dall’inchiesta Rinascita-Scott della procura di Catanzaro. Un lavoro di indagine enorme coordinato dal procuratore Nicola Gratteri, il magistrato certamente più mediatico sulla scena giudiziaria italiana. Ma non siamo di fronte a una curiosa legge del contrappasso.

Tutti fuori

A dire no alla presenza nell’aula bunker costruita a tempo di record nella desolata area industriale di Lamezia, è il giudice Brigida Cavasino, presidente del collegio giudicante. Il 12 gennaio scorso, a ventiquattr’ore dall’inizio della prima udienza, consegna ai giornalisti l’elenco degli accrediti. «Le riprese audio-video durante la celebrazione delle udienze, non sono autorizzate». Quindi fuori i telegiornali di tutte le reti italiane, quelle delle trasmissioni di approfondimento e dei talk, fuori anche i grandi network internazionali. Esclusa Radio Radicale, che da anni registra integralmente tutti i grandi processi italiani. La decisione della giudice è formalmente inappellabile, può però essere revocata in qualsiasi momento, e provoca discussioni e contestazioni.

Protestano sindacato e ordine dei giornalisti, Usigrai e singole personalità del mondo della cultura e dell’informazione. Nei giorni scorsi Usigrai e Federazione nazionale della stampa sono tornati all’attacco. «Negare la registrazione video e audio vuol dire negare un pilastro del racconto. E vuol dire anche impedire di costruire la memoria di un fatto storico. Questo processo non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa, viste anche le infiltrazioni in altri paesi. Anche per questi motivi, il processo ha attirato l’attenzione di giornalisti europei. Ma, nei fatti, la decisione di impedire la ripresa delle udienze limita fortemente il diritto di cronaca. La Federazione europea dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana e l’Usigrai chiedono che il divieto venga cancellato e si consenta ai giornalisti di fare il loro lavoro pienamente e senza limitazioni, nell’interesse dei cittadini europei a essere informati».

Voci di dissenso

Note e lettere di protesta finora non hanno smosso di un millimetro i vertici giudiziari calabresi. Il processo sta andando avanti, e le telecamere sono tenute fuori. Accade a Lamezia per un processo su mafia e politica, succede anche a Locri al processo che vede imputati Mimmo Lucano e il suo “modello Riace”, anche in questo caso l’aula è off-limits per le telecamere. «È una decisione che spero possa essere ripensata e rivista. Come si dice in questi casi, ci rimettiamo al buon senso della corte». Alessio Falconio è il direttore di Radio Radicale, l’emittente che fa della registrazione integrale dei grandi eventi (dibattiti parlamentari, convegni e processi) uno dei suoi punti di forza.

«Il nostro lavoro – ci dice – è quello di documentare, affinché tutti i cittadini possano documentarsi. Quando seguiamo un processo lo registriamo integralmente, senza mediazione o interventi giornalistici. Chi vuole farsi un’idea ascolta le registrazioni e poi, se vuole, decide di approfondire ascoltando pareri e leggendo articoli. Ma c’è di più, il nostro lavoro è materiale preziosissimo per gli storici. Mi chiedo perché di questo importante processo non debba rimanere una traccia audio o video. Non riesco a capirlo, spero davvero in un ripensamento».

Un giorno in pretura è un programma di Rai3 in onda dal 1988. Documentare con le telecamere i grandi processi (Tangentopoli, mafia, il mostro di Firenze, grandi fatti di cronaca) è l’obiettivo della trasmissione. Roberta Petrelluzzi è ideatrice, regista e conduttrice. «È un no davvero strano, quello dei giudici di Vibo Valentia. Nella mia esperienza non è mai esistito un divieto quando c’è una rilevanza sociale forte. Parliamo tanto della forza della ‘ndrangheta, e della sua pericolosità, poi quando la portiamo dietro le sbarre spegniamo i fari. I maxi-processi hanno sempre centinaia di imputati, accuse che delineano scenari e fatti, migliaia di atti e pagine, spesso l’informazione si perde, l’attenzione dell’opinione pubblica cala, la presenza delle telecamere può aiutarci a evitare che accada. Ma è come se ci fosse un pregiudizio nei confronti delle immagini, si mette sullo stesso piano l’informazione sui giornali di carta e quella televisiva. Due modelli e due funzioni radicalmente diversi: il giornale informa, approfondisce, analizza, la tv mostra, fa vedere. Se vuoi tenere alta l’attenzione sulle mafie, devi far vedere le immagini, se lo impedisci, riporti la giustizia nell’ambito ristretto degli addetti ai lavori. È davvero una scelta di retroguardia e io spero vivamente in un ripensamento. Accettare le telecamere in un processo di tale portata è una forma di garanzia per tutti».

Il dibattito è aperto, come si dice in questi casi. Filmare le fasi, anche le più delicate, di un processo, può essere una forma di lesione dei diritti dell’imputato? L’avvocato Franco Calabrese arriva subito al nocciolo della questione. Nel processo Rinascita-Scott difende l’imputato più importante, Luigi Mancuso, detto “’O Supremo”, boss di Vibo Valentia e punto di riferimento importante della ‘ndrangheta. «Abbiamo discusso col nostro assistito e all’interno del collegio difensivo. In linea generale siamo favorevoli alle riprese audio e televisive. Che si documenti il processo per noi va bene, azzardo una ipotesi, credo che il 90 per cento degli avvocati la pensi allo stesso modo. Il provvedimento di divieto è revocabile in qualsiasi momento e anche a processo iniziato, se venisse riproposto noi saremmo certamente favorevoli».

Animali mediatici

Ma nel dibattito entra anche un altro tema, come i boss usano le telecamere nei processi. La risposta è netta: boss e gregari sono formidabili “animali mediatici”. E non è un talento solo delle giovani leve. Michele Greco, il papa di Cosa nostra, è stato un precursore degno della interpretazione di Marlon Brando ne Il Padrino. È un uomo potentissimo, nella sua tenuta vanno a caccia mafiosi e personalità della Palermo bene, quando inizia il maxi-processo contro Cosa nostra è latitante. Lo arrestano in un casolare di campagna dove viveva da solo, unica compagnia un mulo. In aula reciterà a favore di telecamere da grande attore. «Se non mi fossi chiamato Michele Greco, ma Michele Roccapinnuzza, ora non sarei in quest’aula. Mi accusano perché il mio nome fa cartellone».

L’11 novembre 1987, il “papa” è meno ironico. I giudici stanno per riunirsi in camera di consiglio e lui si rivolge così al presidente Alfonso Giordano. «Vi auguro la pace, la serenità dello spirito, e la serenità è la base per giudicare. Signor presidente, le auguro che questa pace vi accompagnerà per il resto della vostra vita». Parole e immagini vengono trasmesse dalle televisioni italiane e straniere. Per la prima volta gli italiani possono vedere il volto di un capo di Cosa nostra. E capire.

Non è da meno Totò Riina, che in un processo a Reggio Calabria nel 1994, a telecamere accese attacca «Violante, Caselli e Arlacchi, tutti un combriccolo di comunisti», lanciando anche un messaggio a Silvio Berlusconi, all’epoca capo del governo. Quello di stare «attento ai comunisti e di cancellare la legge sui pentiti». Più recentemente, in una delle udienze del processo Mafia Capitale, Massimo Carminati, “il cecato”, si esibii nel saluto romano. Era in videoconferenza, sapeva della presenza delle tv, scattò sull’attenti e fece il saluto fascista. Ma il più mediatico di tutti è stato certamente Raffaele Cutolo, il boss della camorra morto qualche settimana fa. Di fronte all’obiettivo, sapeva calibrare ogni gesto, ogni parola, trasformare il suo cappotto di cammello in un vero e proprio brand, con l’illusione di diventare un mito. Forse ci è pure riuscito, ma milioni di italiani hanno visto il grande capo, il boss dei boss, sconfitto e dietro le sbarre. Mostrare la realtà, sempre e comunque, è questa la vera forza delle immagini.

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