L’emergenza da Covid-19 ha sconvolto ogni nostra abitudine, non soltanto esternamente, costringendoci all’uso di mascherine e disinfettante, ma soprattutto all’interno della sfera emozionale. Nei due lockdown si è registrato un generalizzato aumento di stress, ansia, depressione e dipendenze. Tra queste patologie, c’è stato un forte incremento di quelle relative al cibo, i cosiddetti Disturbi del comportamento alimentare, noti come Dca.

L’incremento

Durante primo e secondo lockdown, molte persone hanno canalizzato le proprie emozioni o paure sul cibo. Esistono diverse tipologie di Dca: l’anoressia nervosa, la bulimia, il binge eating, quella che viene denominata “emotional eating” ovvero “fame emotiva”. Ogni essere umano riversa le proprie emozioni sul cibo, più le emozioni sono intense, più possono comportare un cambiamento delle abitudini alimentari.

La dottoressa Laura Dalla Ragione, psichiatra e psicoterapeuta, direttrice dei centri umbri dedicati alle cure dei Dca e referente per il ministero della Salute, individua in due ragioni fondamentali alla base dell’aumento dell’utenza delle strutture che gestisce e dell’aggravamento delle persone già ammalate prima della pandemia. Secondo la dottoressa, molti peggioramenti sono da ricondurre a un evento traumatico che si è consumato attraverso l’isolamento sociale, la permanenza forzata in casa, la chiusura delle scuole per i più piccoli, la lontananza dagli amici e dalle attività di coinvolgimento sociale.

Una seconda motivazione, altrettanto importante, è strettamente collegata alla carenza per le cure dedicate, specialmente in alcune regioni d’Italia. Molte strutture diurne durante il lockdown hanno chiuso gli accessi, i Dca spesso non venivano accolti nemmeno negli ospedali, quasi interamente occupati da pazienti Covid. Una questione non ancora interamente risolta.

Dalla Ragione sottolinea poi un ulteriore problema: si sono nettamente ridotti i numeri delle terapie ambulatoriali. Tra quelli ancora attivi, inizialmente molti ambulatori non erano attrezzati neppure per gestire la terapia da remoto. Solo successivamente, con il secondo lockdown, si è messo mano alle carenze per i percorsi di cura online. Ora quelli attivi sono parecchi, ma, dice Dalla Ragione, «non è la stessa cosa che fare il colloquio dal vivo, disturbi come questi hanno bisogno di presenza e di una valutazione nutrizionale».

I dati

La dottoressa Dalla Ragione tiene a specificare che non si muore mai di anoressia o bulimia, ma si muore per il non accesso alle cure. L’aumento dei casi preoccupa: comparando il primo semestre del 2019 con il primo del 2020 si è registrato un incremento del 30 per cento dell’incidenza delle patologie. L’indagine rivela anche un abbassamento dell’età media dei pazienti. Dai dati Survey, diffusi dal ministero della Salute, risulta che nel primo semestre del 2020 sono stati rilevati 230.458 nuovi casi. Nello stesso periodo dell’anno precedente erano stati 163.547. I pazienti maschi che si sono presentati al Pronto soccorso sono aumentati di quattro volte.

In Italia, l’anoressia è la seconda causa di morte nella fascia tra i 12 e 18 anni, dopo gli incidenti stradali.

Le strutture in Italia

Per le cure dei Dca esistono strutture pubbliche o private convenzionate, circa 146 in tutto il paese. Si tratta di strutture spalmate sul territorio nazionale, ma in maniera irregolare. Ci sono regioni in cui è presente una rete completa di assistenza, come la Toscana, l’Umbria, il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna, ma in metà delle regioni quest’organizzazione non c’è: è quello che si verifica nelle Marche o nell’Abruzzo, ma anche in diverse regioni meridionali.

Quando si parla di rete completa di assistenza, si fa riferimento ai quattro livelli di assistenza previsti dal ministero della Salute: ambulatorio, day-hospital, ricovero ospedaliero in fase acuta e residenzialità extraospedaliera. Sono tutti necessari, «l'uno non esclude l'altro, anzi la presenza di una rete completa in tutte le sue parti garantisce l'appropriatezza dell'intervento con particolare riguardo alla presa in carico globale del paziente e della sua famiglia», è quello che si legge dal rapporto del ministero della Salute, eppure i deficit del sistema italiano sono molteplici.

Queste mancanze rientrano nelle cause dirette di aumento del disturbo dell’alimentazione, secondo la dottoressa Dalla Ragione, se sul territorio fosse già presente un ambulatorio «ben fatto», vale a dire integrato con tutte le figure specializzate che servono, psicologo, psichiatra e nutrizionista, assorbirebbe da solo il 60 per cento dei casi. C’è poi un 40 per cento di pazienti che ha bisogno, nel corso della patologia, di un ricovero ospedaliero o anche di passare un periodo in una struttura residenziale come quelle presenti in Umbria, nelle quali i pazienti trascorrono dai tre ai cinque mesi.

Nel resto del paese però questo genere di strutture sono molto poche. Quelle semiresidenziali, ovvero quelle nelle quali i pazienti e le pazienti trascorrono l’intera giornata, facendo i pasti assistiti e tornando a casa a dormire, sono quelle tra le tante che durante la prima fase di pandemia hanno chiuso le porte. Ci sono regioni, tra cui la Calabria, la Puglia, la Sicilia, che non hanno alcun tipo di strutture se non qualche ambulatorio, mentre in una regione così grande come la Sardegna sono presenti solo 2 ambulatori. Nel caso dell’Umbria, a causa del Covid-19 ci sono stati cambiamenti importanti nell’organizzazione.

«Abbiamo dovuto bloccare gli accessi dall’esterno, nessun familiare ha potuto vedere i propri figli, i ragazzi e le ragazze hanno avuto contatto con i familiari solo in videochiamata e non dal vivo. Abbiamo potuto riprendere alcuni contatti sporadici solo nell’ultimo mese», dice Dalla Ragione. Anche molte attività che prevedevano contatto ravvicinato sono state ricalibrate sulle nuove necessità.

Le mancanze delle strutture derivano essenzialmente da due motivi. Il primo dipende dal fatto che i disturbi del comportamento alimentare si classificano come una patologia “nuova”. C’è stato quindi un ritardo nel capire la sua gravità e una difficoltà a reperire le risorse. Il secondo motivo è di natura culturale: è passato molto tempo prima che la società comprendesse che si tratta di una patologia psichiatrica e non di una moda o un capriccio.

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