Il 28 ottobre sarà il centenario della marcia su Roma. E, se è vero che la storia è sempre contemporanea come sosteneva Benedetto Croce, per riflettere su come fu possibile consegnare il governo dell’Italia al Partito fascista di Mussolini l’anniversario è occasione adatta.

Se oggi è inesistente il pericolo di un ritorno del fascismo, fenomeno storicamente definito, alcune attuali realtà politico-istituzionali ricordano quegli anni: l’instabilità dei governi; la frequenza delle elezioni che furono ben tre dal 1919 al 1924; una crisi economica legata a contesti internazionali.

Diverso, per fortuna, è il clima socio-politico di oggi, che nel 1922 era ricco di tensioni e violenze scattate nel “biennio rosso”, con l’aumento degli scioperi e la convinzione socialista che la rivoluzione operaia fosse vicina.

Al centro-nord si scatenò la reazione di industriali e agrari, con connivenze istituzionali sulle violenze squadriste e la sottovalutazione dei liberali, che ritenevano i fascisti i soli in grado di arginare il “pericolo rosso”.

Per comprendere la rapida fascistizzazione dello Stato diventata dittatura dopo il delitto Matteotti, è indispensabile conoscere le origini del movimento dal primo dopoguerra al 1925 quando Mussolini si assunse la responsabilità politica e morale dell’assassinio del deputato socialista, rapito e ucciso da un gruppo di squadristi.

L’astensionismo

Se lo scenario di un secolo fa era questo, se alle elezioni del 1921 il direttore del “Mattino” lamentò l’alto astensionismo bacchettando la borghesia liberale per aver spianato la strada al successo socialista, mi incuriosiva capire i riflessi di tutto questo nel Mezzogiorno ancora tiepido verso il fascismo.

Così, ho acceso i riflettori su un personaggio che Renzo De Felice riteneva tra i meno raccontati ma anche tra i più complessi dei dissenzienti fascisti delle origini: Aurelio Padovani.

Un napoletano di adozione nato nella vicina Portici, pluridecorato nella prima guerra mondiale e nella guerra italo-turca, bersagliere mutilato di parte del piede destro, tra i fondatori a Napoli del movimento del Fascio diventato partito dopo il congresso romano del novembre 1921.

Il fascio campano era residuale rispetto al potere violento e all’influenza dei ras del centro nord sulla politica mussoliniana. Violenze “anti-bolsceviche” ci furono anche a Napoli e provincia, ma non ebbero la continuità e l’organizzazione militare delle camicie nere in Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lombardia, Piemonte.

La storia di Padovani

Raccontare Aurelio Padovani, in una biografia completa che tocca anche aspetti della sua vita privata e familiare, utilizzando inesplorati documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, degli archivi comunali di Napoli e Portici, o dalla lettura dei giornali dell’epoca come “Il Mattino”, significa descrivere la Napoli alla vigilia della marcia su Roma, il sud liberale che nel 1921 aveva dato al deputato Enrico De Nicola, futuro primo capo dello Stato repubblicano, oltre centomila preferenze.  

Nella vigilia della marcia su Roma, Napoli ebbe un ruolo importante per volere di Mussolini e dei suoi ras Bottai, Grandi, De Vecchi, De Bono, Bianchi.

Il Mezzogiorno era territorio vergine da conquistare e al futuro duce appariva chiaro che il fascismo, che nel 1922 aveva appena 35 deputati in Parlamento, per diventare partito nazionale doveva acquisire consensi al sud. Pochi giorni prima della marcia su Roma, fu deciso di tenere a Napoli congresso e consiglio nazionale fascista, con un discorso di Mussolini al teatro San Carlo che anticipava la sua linea politica.

Napoli fu invasa da trentamila camicie nere, il raduno fu studiato con cura e Padovani vi ricoprì un ruolo di rilievo. A Napoli furono scelte più location: il San Carlo, il campo dell’Arenaccia dove dormì gran parte degli squadristi, piazza Plebiscito per il discorso di Mussolini successivo a quello in teatro, l’hotel Vesuvio dove alloggiarono il futuro capo del governo e i ras che vi tennero più riunioni.

Il 24 ottobre 1922, il discorso di Mussolini al San Carlo fu applaudito anche da Benedetto Croce che era tra i senatori invitati. De Nicola, presidente della Camera, inviò a Mussolini un telegramma di benvenuto. Il fascismo era ancora un partito inserito nelle regole costituzionali, ma prossimo a guidare il governo dopo la forzatura extra-parlamentare della marcia avallata dal re Vittorio Emanuele III.

Salito al governo, Mussolini capì che, per conquistare il sud, doveva raccogliere simpatie e consensi di notabili, professionisti, aristocratici, medio borghesi del commercio e delle piccole imprese, latifondisti della provincia. Per farlo, era indispensabile la fusione con i nazionalisti.

Una fusione che Padovani, repubblicano convinto, anti-bolscevico, leader dei ceti popolari napoletani impegnati nei lavori più umili, ostacolò. Vedeva nei notabili il trasformismo del sud passato con rapidità dai Borbone ai liberali, ora al fascismo. Dopo la conquista mussoliniana del governo, nel Mezzogiorno iniziò la corsa alla tessera fascista.

Padovani entrò in contrasto con la linea ufficiale del partito, ne venne espulso, anche se i padovaniani rimasero un gruppo numeroso che in Campania faceva paura. «È ora di finirla con la deità irata del capitano Padovani», scrisse Mussolini, che ordinò alla polizia di controllare il ribelle e i suoi fedelissimi, temendo passasse con i liberali.

Ma la storia di questo personaggio divenne tragedia quando, il 16 giugno 1926, affacciandosi per salutare la folla che lo acclamava in strada, morì per il crollo del balcone della sua casa-studio di Santa Lucia con otto suoi fedelissimi.

Si gridò all’attentato. Napoli visse giorni di tensioni e timori di scontri. Durante i funerali nella chiesa di San Francesco di Paola in piazza Plebiscito, la città si fermò. Vi parteciparono a migliaia, confermando la notorietà di Padovani nonostante l’esclusione dal partito. Gli inediti atti del processo sul crollo sono illuminanti per raccontare lo scenario del potere di allora.

Tutto fu messo a tacere, la verità giudiziaria sul crollo parlò di costruzioni imperfette. Scrisse Guido Dorso: «Padovani interpretava per suo conto, forse inconsciamente, l’unica ragione di vita del fascismo contro il trasformismo di governo». Era il sud, determinante nei successi politico-elettorali. Un secolo fa, come oggi.

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