Dal porto turistico di Palermo si ha una splendida vista sulla città. Lì in primo piano si stagliano una serie di edifici eleganti, alcuni risalgono all’epoca normanna, altri si rifanno al tardo Rinascimento. In mezzo a loro spicca anche il murales di Falcone e Borsellino che accompagna l’ingresso nel centro storico della città.

«Questa è la prima cosa che ho visto dell’Italia, bellissima – racconta Jean (nome di fantasia ndr), un uomo di 39 anni originario del Senegal – La seconda è stata il carcere Pagliarelli». Incontriamo Jean in una bella giornata di sole siciliana, da cartolina. Il cielo è terso, il mare è calmo e intorno a noi ciondolano decine di barche. Jean si ferma e ce ne indica una uguale a quella con cui è arrivato in Italia. È un gozzo con lo scafo di colore blu mare, lungo circa dodici metri.

Secondo la legge italiana un natante del genere può trasportare non più di nove persone, ma a bordo della barca di Jean ce n’erano molte di più. «Una barca di 150 persone, prendi 2 persone e le porti in galera. Lasci gli altri liberi, ma che senso ha? – si chiede Jean senza darsi pace, sulla scia dei ricordi riaffiorati insieme a quella barca davanti ai suoi occhi – Io ho guidato una barca come questa e per questo motivo mi volevano dare sette anni di prigione». Jean è arrivato in Italia nel luglio 2016 e appena ha messo piede nel nostro paese è stato portato in carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Gli hanno chiesto se fosse uno scafista e lui ha risposto di sì, perché non aveva la minima idea di cosa volesse dire. E come lui ce ne sono stati tanti negli ultimi anni.

Scafisti veri e presunti

Secondo il report “Dal mare al carcere” realizzato dall’associazione Arci Porco Rosso di Palermo in collaborazione con Borderline Europe, negli ultimi dieci anni in Italia sono stati accusati almeno 2.500 presunti scafisti. Solo nel 2022 sono stati 264, una persona ogni 300 arrivate. Ora che Jean ha imparato sulla sua pelle il significato della parola scafista, trova inaccettabile essere definito con questo termine. «È una parola troppo pesante per noi. Noi non siamo scafisti, siamo capitani».

Secondo lui c’è un problema molto serio se non si riesce a capire che gli scafisti non vengono in Italia, che per trovare gli scafisti si deve andare in Libia. «Prendiamo ad esempio una barca che trasporta 120 persone. Ogni persona paga 1.000 euro, quindi sono circa 120.000 euro per un solo viaggio. Sono tanti soldi. Chi è che con un business del genere prende una barca per rischiare la sua vita in mare? Non ha senso. La verità è che gli scafisti non vengono qui, i capitani vengono qui e i capitani non portano persone, ma portano loro stessi».

Per far capire bene quel che intende dire, Jean riavvolge un po’ il nastro della sua storia fino all’arrivo in Libia, distretto di Sabrata. Jean ha speso tutto quello che aveva per arrivare fin lì e non ha più soldi per pagare il viaggio attraverso il Mediterraneo. Così inizia a darsi da fare come muratore, a cottimo, in uno dei piccoli centri della provincia. Ogni giorno va in piazza, insieme al suo amico Ousmane, e aspetta che qualcuno li carichi su per una giornata di lavoro. Va avanti così per mesi.

Nel luglio del 2016 però accade una cosa inaspettata. Un giorno arriva la solita camionetta di libici in cerca di lavoratori, a salire sono in tre: Jean, Ousmane e un altro loro connazionale. Solo che stavolta non li portano in un cantiere, ma su una spiaggia dove ad attenderli ci sono una barca e qualche centinaio di migranti pronti a partire. I libici prendono Ousmane, gli chiedono di mettersi alla guida della barca, ma il ragazzo si rifiuta perché ha troppa paura del mare. Armati di bastoni e spranghe, i trafficanti lo colpiscono fino ad ucciderlo. Poi ripetono la stessa richiesta, questa volta a Jean.

«Mi dico, non ne vale la pena di morire qui oggi. Se posso tentare di salvarmi la vita via mare lo farò». La decisione è presa. I libici portano Jean sulla barca, un breve giro di prova in cui gli insegnano a tenere dritto il timone e poi è già tempo di far salire gli altri passeggeri e partire. 150 persone ammassate in uno spazio concepito per ospitarne 9, e solo uno di loro alla guida. «Io non avevo mai guidato una barca in vita mia, ma a loro non interessava che io guidassi bene. A loro interessavano solo i soldi».

Dopo aver percorso solo poche decine di metri, tutti a zig zag, la barca viene raggiunta da due trafficanti su una moto d’acqua. Jean ha guidato talmente male che hanno paura che lo scafo si rovesci lì davanti alla spiaggia, sarebbe un disastro per i loro affari. Lo minacciano di nuovo, gli dicono di andare dritto e di tenere saldo il timone. «È lì che mi sono ricordato della stella polare – ricorda Jean – me lo avevano insegnato durante il servizio militare in Senegal. La stella polare indica sempre il nord, se la segui ti porta sempre in Europa».

Il desiderio dell’Europa

Per la prima volta da quando ha iniziato il suo racconto Jean smette di essere un fiume di energia e parole, si prende un attimo di pausa. Forse perché è arrivato al nocciolo della questione, il desiderio smisurato di raggiungere l’Europa, una vita migliore, a ogni costo. Mettendo in conto di poter morire di bastonate in Libia o di finire annegato nel mezzo del Mediterraneo. Il carcere in Italia, i processi lunghissimi, la fame. Gli chiediamo se ne è valsa la pena, se oggi seguirebbe di nuovo quella stella. Come se avesse avuto scelta. «Io quando ho guidato questa barca non pensavo agli altri che erano insieme a me. Io ho pensato solo a me stesso, perché avevo questo unico obiettivo: raggiungere l’Europa. Stavo cercando di salvare me stesso».

Dopo un processo lungo sette anni, Jean è stato assolto la scorsa primavera. Gli è stato riconosciuto lo stato di necessità, una giustificazione penale che stabilisce che chi commette un reato perché costretto da una forza maggiore superiore alla sua volontà, non incorre in responsabilità in quanto non si può dire che il reato sia stato il frutto di una sua libera e consapevole scelta. In pratica il giudice ha stabilito che ha guidato quella barca perché si trattava di vita o di morte.

Oscar Luigi Modica è stato giudice a Palermo, prima di trasferirsi alla Corte Penale di Appello di Caltanissetta. Modica è stato tra i primi ad applicare lo stato di necessità in questa fattispecie di processi. «Si ha il timore che facendo ricorso a questa clausola si incentivi il fenomeno dell’immigrazione clandestina – spiega il giudice – Ho rilevato che bisogna distinguere il piano politico da quello giuridico. Senza avere preoccupazioni se la sentenza può essere considerata un incentivo o meno per il fenomeno generale dell’immigrazione clandestina. Sono aspetti del tutto irrilevanti per il singolo caso, perché il singolo caso vuol dire che c’è una persona lì imputata, spesso in carcere, che aspetta la sentenza giusta».

Una seconda occasione

Ora che la sentenza è arrivata, Jean è alla ricerca della sua seconda occasione in Europa. In questi anni ha seguito un corso professionale ed è diventato un operaio subacqueo specializzato. È in Italia che si è formato ed è qui che vuole costruire il suo futuro, nonostante tutto. La sua vicenda processuale però non ha smesso di condizionare la sua vita. Il carico pendente ha infatti allungato a dismisura i tempi di rilascio del permesso di soggiorno e senza quello Jean non può essere regolarmente assunto, nonostante ci sia una enorme richiesta di lavoratori con la sua qualifica. Lo Stato italiano ha smesso di considerarlo un criminale, ma continua a trattarlo come un clandestino, un indesiderato.

Prima di salutarci gli chiediamo se non è paradossale che per andare avanti abbia scelto di tornare in mare, in quel mare che gli stava costando prima la vita e poi la libertà. «Io amo il mare. Lo so, è un lavoro pericoloso – conclude Jean senza perdere il sorriso – Ma secondo me nella vita non c’è mai una cosa che fai senza prendere dei rischi».

Il reportage “Trattamento speciale” di Raffaele Marco Della Monica e Raffaele Manco, andrà in onda lunedì 31 luglio, seconda puntata del programma “Il Fattore Umano” alle 23.15 su Rai 3.

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