E se l’Italia si farà da sola il suo vaccino anti Covid? Non è un’opzione ma una necessità, ed è quello che si cerca di fare allo Spallanzani di Roma.

I numeri sono impietosi: se anche il piano vaccinale del commissario Arcuri ottemperasse alle sue promesse logistiche, la realizzazione dipenderà da fattori fuori del controllo italiano: l’approvazione dei vaccini, la loro produzione e distribuzione.

Chi produce i vaccini

Vediamo il quadro. Il vaccino Usa Pfizer è stato approvato dall’agenzia europea del farmaco; il vaccino Usa Moderna potrebbe esserlo il 7 gennaio; il vaccino britannico AstraZeneca – sviluppato con l’Università di Oxford – ha avuto un ok d’emergenza in Gran Bretagna ma in Unione Europea è ancora in alto mare. La spartizione dei vaccini è stata gestita dall’Unione Europea: a ogni paese membro tocca in linea di principio una percentuale pari al suo peso demografico, e per l’Italia è il 13,46 per cento. Dei primi lotti opzionati dall’Ue, ci spetterebbero quindi Pfizer per 40,2 milioni di dosi; Moderna per 10,7 milioni di dosi; AstraZeneca per 40,2 milioni di dosi; e poi man mano Sanofi per altri 40,2 milioni di dosi; Curevac per 30,2 milioni, J&J per 26,8 milioni di dosi (raddoppiano se non servisse il richiamo); ci sono anche accordi preliminari con Novavax.

Ugur Sahin, che ha fondato con la moglie Özlem Türeci la turca Bionntech, sviluppatrice del vaccino prodotto da Pfizer, in una intervista a Der Spiegel ha criticato l’Ue perché «ha contato sul fatto che diverse compagnie avrebbero completato i loro vaccini. È una strategia di buon senso, ma a un certo punto è apparso chiaro che molti non sarebbero stati in grado di rispettare le promesse». Gli Stati Uniti invece hanno puntato sul cavallo Pfizer ordinando 600 milioni di dosi.

D’altronde le speranze di arginare la pandemia si rivolgono ormai quasi solo ai salvifici vaccini: la medicina del territorio non è mai stata in grado di “tracciare e testare” per bloccare i contagi - troppo numerosi - e non si osa più procedere a veri confinamenti perché massacrano l’economia e la psiche. Sul lungo periodo poi, gestire il Covid con campagne di vaccinazione annuale planetaria richiede la risorsa di un vaccino indipendente.

Gli italiani e il vaccino

A Roma, l’ospedale Lazzaro Spallanzani sperimenta dalla scorsa estate il prodotto della laziale ReiThera, basato, spiega l’epidemiologo Enrico Girardi, «su un adenovirus derivato dal gorilla. Serve a veicolare nel nostro organismo un pezzetto di informazione genetica che fa produrre alle nostre cellule la proteina spike del coronavirus del Covid. A questo punto l’organismo stesso crea anticorpi contro questa proteina. È un meccanismo che riproduce artificialmente l’infezione naturale, ma lo facciamo con virus che non si replicano: quindi vogliamo ottenere la risposta immunitaria senza la parte dannosa dell’infezione».

A fine dicembre lo Spallanzani ha annunciato di aver concluso la fase uno su «due gruppi di volontari, uno più giovane l’altro più anziano, provando tre dosi diverse di vaccino. A giorni saremo in grado di dire quale funziona meglio in ciascun gruppo. Potremo poi varare una fase di prove su scala molto più ampia, per verificare se la produzione di anticorpi si accompagna a una protezione immunitaria. Se tutto va come speriamo, dovremmo avere un vaccino somministrabile alle persone entro il 2021». Sta lavorando a un vaccino italiano almeno un’altra società del Lazio, la Takis.

"Immunizzazione passiva”

La sperimentazione del vaccino di Oxford è stata condotta con la collaborazione del National Institute Health Research (Nihr), il braccio della ricerca scientifica del sistema sanitario nazionale: a capo c’è Vincenzo Libri, calabrese. «Mi sono sempre occupato di ricerca clinica - dice – la mia cattedra è presso l’istituto di neurologia dell’University College di Londra. Qui avevo la responsabilità dei trials clinici in due centri, di oncologia e di malattie neurodegenerative. Mi è stato chiesto di guidare il programma vaccini, e abbiamo aperto di recente un terzo centro per il vaccino e gli anticorpi neutralizzanti».

Questa è l’altra grande speranza del futuro: le terapie monoclonali, ovvero la produzione in laboratorio di anticorpi identici a quelli di pazienti guariti. Si studiano anche allo Spallanzani di Roma, e a Londra il Nihr a fine dicembre ha varato una sperimentazione che riguarderà volontari su cui il vaccino non è utilizzabile, o perché già potenzialmente contagiati da persone infette, o perché pazienti immunosoppressi. «Parliamo del vaccino come di immunizzazione attiva, degli anticorpi neutralizzanti come di immunizzazione passiva», spiega Libri: in sostanza vengono iniettati nel paziente gli anticorpi già pronti all’uso. Gli anticorpi monoclonali della sperimentazione britannica sono, anche questi, prodotti da AstraZeneca.

Nani e giganti

Ma la situazione della ricerca non comprende solo i grandi laboratori pubblici (magari universitari) e le grandi aziende farmaceutiche. In Italia il settore della biotecnologia è articolato: quasi 700 imprese, quasi tutte piccole o micro, delle quali il 49,4 per cento si occupa di salute (soprattutto in Lombardia, Toscana e Lazio: biofarmaci, diagnostici, vaccini), e genera tre quarti del fatturato di tutto il comparto: cioè circa 9 miliardi di euro secondo il rapporto BioinItaly 2020 prodotto da Federchimica ed Enea.

Di queste imprese, 193 sono interamente a capitale italiano, anche se il grosso del fatturato è prodotto da imprese straniere o a capitale misto. In ogni caso, passata la prima fase della ricerca, senza un grande gruppo privato non si va da nessuna parte.

«Il nostro vaccino - dice Enrico Girardi dello Spallanzani – è stato prodotto ai fini della sperimentazione dalla ReiThera, che ha anche laboratori per la produzione nell’ordine delle migliaia di dosi. Se si dovesse somministrare alla popolazione bisognerebbe trovare dei partner industriali con capacità produttive non di migliaia, ma di milioni di dosi».

 

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