A distanza di dieci anni quattro episodi terribili hanno cambiato la storia d’Italia, trasformato il modo di contrastare la mafia e determinato il suicidio dei corleonesi: nel 1982 l’omicidio di Pio La Torre e dopo quello di Carlo Alberto dalla Chiesa e nel 1992 le stragi di Capaci e di via D’Amelio che causarono la morte di Giovanni Falcone e subito dopo di Paolo Borsellino.

Tra questi avvenimenti che si sono svolti nel breve volgere di un decennio c’è un qualche legame, un filo rosso di sangue che li tiene uniti? La mia idea è che ce n’è più d’uno. Provo a spiegare perché.

Il primo a cadere è La Torre, deputato e segretario del Pci siciliano. È un omicidio che arriva dopo quelli di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Michele Reina, Gaetano Costa, omicidi di poliziotti, magistrati, uomini politici e delle istituzioni, tutti commessi nel biennio 1979-1980.

È difficile pensare che siano omicidi slegati uno dall’altro. Quello di La Torre è un omicidio politico-mafioso con una torsione terroristica. Avviene in un momento in cui in Sicilia Michele Sindona inscena un finto rapimento, agisce una struttura clandestina di nome Gladio, c’è un possente movimento contro i missili a Comiso promosso proprio dal dirigente comunista, e dentro la DC è più potente di prima Vito Ciancimino.

È scandagliando questi misteri che si può comprendere le ragioni dell’omicidio. Ragioni, al plurale, perché di fronte ad omicidi così importanti non c’è mai un solo motivo.

Solo coppole

E invece, il direttore del Sisde, Emanuele De Francesco, è convinto che quegli omicidi abbiano “origine e conclusione in ambienti di mafia” Solo coppole, e nient’altro. E per giunta solo Sicilia; invece è un omicidio italiano. Mentre ci si balocca con queste idee spunta una pista interna, un regolamento di conti dentro il Pci palermitano.

La campagna inizia con un articolo del Giornale di Sicilia rilanciato da Il Messaggero e pochi giorni dopo uno “scritto anonimo” arriva in Procura a Palermo e dice di “contrasti interni”. Della pista interna se ne occupa anche Falcone che non raggiunge alcun risultato perché è un depistaggio.

Falcone davanti alla Commissione antimafia del 22 giugno 1990 dirà che l’omicidio La Torre è, tra tutti quelli degli anni precedenti, «l’omicidio importante, l’omicidio di spicco, l’omicidio che si inquadra in un determinato contesto».

La resistenza dentro la Dc e il depistaggio fanno arenare la proposta di legge di La Torre che propone di introdurre nel codice penale il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso.

Il 3 settembre, 125 giorni dopo La Torre, è ucciso dalla Chiesa nominato prefetto anche grazie ad una richiesta di La Torre; i due si conoscono da molti anni e c’è tra loro una stima reciproca. Dalla Chiesa s’insedia, su richiesta del Governo, il giorno dell’uccisione del dirigente comunista. Arriva a Palermo e nessuno lo va a prendere in aeroporto.

L’omicidio Dalla Chiesa

L’accoglienza riservatagli è l’avvisaglia di quello che accadrà al prefetto durante tutto il periodo palermitano. Cercherà di ottenere i poteri necessari per agire con efficacia contro la mafia, ma non li otterrà.

Nando dalla Chiesa ha documentato in più volumi queste traversie del padre. Si discute persino sull’opportunità che guidi la lotta alla mafia e su chi debba coordinare le forze, se lui o il presidente della Regione. «Sono stato catapultato», dirà il prefetto appena arrivato a Palermo, «in ambiente infido», «in casa d’altri» dove c’è chi si aspetta i miracoli e chi invece «va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo». Il sottosegretario all’Interno, Angelo Sanza, sentenzia che «dalla Chiesa è un prefetto come gli altri, non ha e non avrà nessun potere in più».

Il 2 settembre si svolge a Roma un vertice operativo antimafia ma «il nome del prefetto dalla Chiesa non sarà neanche fatto» ricorda Nando dalla Chiesa nel suo Delitto imperfetto pubblicato da Mondadori nel 1994.

In questa situazione perché uccidere dalla Chiesa? Soprattutto perché ucciderlo subito dopo la Torre il cui omicidio arriva alla fine di una serie di “delitti eccellenti”? A chi serve dalla Chiesa ucciso subito? Quale urgenza c’è? L’urgenza c’è per la mafia o per qualcun altro? Falcone parla di questo omicidio come di una “faccenda che mi sembra abbastanza diversa” da quella di La Torre.

Possibile che i capi mafiosi pensino che lo Stato sarebbe rimasto inerte di fronte ad un omicidio di un uomo amato, stimato, che nell’immaginario collettivo è l’uomo che ha sconfitto il terrorismo? Qualcuno ha garantito l’inerzia? Cosa avviene subito dopo lo sappiamo.

Nel giro di una manciata di giorni il Parlamento approva la legge voluta da La Torre, una legge rivoluzionaria perché per la prima volta si introduce il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso e si spalanca la porta alla possibilità di indagini patrimoniali per arrivare al sequestro e alla confisca dei possedimenti mafiosi.

Per la mafia è una sonora sconfitta dalla quale non si riprenderà più perché quella legge è il grimaldello che scardinerà le organizzazioni mafiose. Senza quella legge non ci sarebbe stato il maxiprocesso a Palermo né si sarebbero celebrati tutti i processi per mafia, in tutta Italia, da allora fino ad oggi. È stato il primo, grande errore dei corleonesi.

Dieci anni dopo, il secondo errore; quello che porterà alla definitiva scomparsa dei corleonesi.

L’omicidio Falcone

Il 23 maggio a Capaci la strage che uccide Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tutta la scorta.

L’anno si è aperto con la sentenza della Corte di cassazione che conferma in via definitiva gli ergastoli ai capimafia più prestigiosi. La mafia reagisce e uccide dapprima l’on. Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia, perché non avrebbe mantenuto i patti, poi con Capaci.

In una logica mafiosa si potrebbe arrivare a dire che è stata portata a termine una vendetta. Potrebbe essere così, ma qualcosa non torna.

Non torna il fatto che un certo Elio Ciolini, detenuto, personaggio ambiguo ed oscuro, vicino ai servizi segreti, a logge massoniche coperte e alla destra eversiva sia in possesso di informazioni circa un attentato di grosse dimensioni, una strage in arrivo e l’avvio di un periodo di terrore. Da chi ha saputo, e perché preannuncia l’inferno che si aprirà con le voragini di Capaci? Ma vi è un fatto altrettanto enigmatico.

A metà febbraio arriva a Roma un commando di Cosa nostra composto, tra gli altri, da Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella. Hanno il compito di uccidere Falcone e di attribuirne la paternità ad una sigla terroristica. Non riescono perché fanno confusione con il ristorante dove va Falcone. Riina li fa rientrare a Palermo. Perché Riina cambia idea e sceglie di fare l’Attentatuni per prendere in prestito il titolo di un libro di Giovanni Bianconi e Gaetano Savatteri?

Nessuno lo ha mai spiegato. Non si sa nemmeno perché decidono la strage di via D’Amelio 57 giorni dopo Falcone.

Torna l’interrogativo posto per dalla Chiesa: che fretta c’è? Lo Stato dopo Capaci è allo sbando. Ci sono state le elezioni che hanno visto la vittoria della Lega nord per l’indipendenza della Padania che ha la secessione nel suo programma. Il presidente della Repubblica si elegge in fretta e furia solo dopo Capaci alla sedicesima votazione. Si forma un nuovo governo e cambia il ministro dell’Interno, da Scotti si passa a Mancino.

Si avviano a Caltanissetta le indagini per la morte di Falcone, ma Borsellino, sebbene lo avesse richiesto, non è interrogato. È come se non esistesse.

Il procuratore Giammanco non gli fa fare le indagini sulla mafia a Palermo sebbene lo abbia chiesto. Nel frattempo, tra le due stragi, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno incontrano più volte Vito Ciancimino; perché, secondo l’accusa, avrebbero intrecciata una trattativa con cosa nostra, perché, secondo i militari del Ros dei carabinieri, volevano ottenere informazioni utili a catturare i latitanti.

Martelli, ministro di Grazia e giustizia, riapre i termini per la Superprocura e Scotti indica come migliore candidato Borsellino che s’infuria e lo costringe a relegare come un auspicio quella che invece è una proposta.

Numerosi sostituti procuratori di Palermo gli chiedono di restare al suo posto. Stando così le cose, quale è il pericolo immediato, reale, che rende indifferibile l’eliminazione di Borsellino? Qualcosa ci dev’essere se è vero che c’è stato un depistaggio di proporzioni inaudite.

Perché ad un certo punto la fretta s’impadronisce di Riina che, secondo Gangemi, vuole “fare veloce”? Riina è il capo di Cosa Nostra nel 1982 ed è ancora lui il capo nel 1992. Lo stesso uomo commette e reitera l’errore. Lo fa da solo o c’è qualcuno che chiede, pretende, suggerisce cosa fare? Riina è proprio convinto che lo Stato non avrebbe reagito o qualcuno ha dato assicurazioni in tal senso?

Dal punto di vista mafioso s’è trattato di un tragico errore, il secondo in dieci anni. Invece lo Stato reagisce, prende l’iniziativa e con una serie di leggi approvate mette in ginocchio i corleonesi.

Quando a montagna dei cavalli, in territorio di Corleone, dove tutto è iniziato, è catturato Bernardo Provenzano è chiaro a tutti che il ciclo dei corleonesi è finito: irrimediabilmente. E si comprende che tra gli artefici del tracollo corleonese un posto d’onore lo occupa proprio Totò Riina che può essere annoverato come l’uomo che ha contribuito ad affossare i corleonesi.

A Giorgio Bocca che chiede perché è stato ammazzato La Torre, dalla Chiesa risponde: per tutta una vita. Proprio così: per tutta una vita. Ma questo vale non solo per La Torre ma anche per dalla Chiesa, Falcone e Borsellino.

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