Di recente ho realizzato di essere nato ventisette anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ventisette anni dopo lo sgancio della bomba su Hiroshima. Con stupore ho realizzato che non era passato poi così tanto tempo dalla fine di un evento storico così importante, un evento studiato sui libri di storia e che per me faceva parte di un passato lontanissimo.

D’altra parte, i soli componenti della mia famiglia ad aver vissuto la guerra in prima persona sono stati i miei nonni. I miei genitori sono nati durante la guerra, ma in una Palermo ormai liberata dagli alleati. L’evento che mi ha spinto a fare questa considerazione è stato il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Perché ho pensato: una persona che nasce nel 2022, vivrà quella strage come io ho vissuto la seconda guerra mondiale? Percepirà la figura di Giovanni Falcone come io percepisco quella di Winston Churchill?

Probabilmente considererà le stragi del 1992 come fatti importanti ma lontani, che non le appartengono. Fatti che hanno coinvolto i nonni, al massimo i genitori. E più passa il tempo, più sarà difficile coinvolgere questa persona, farle capire che non si tratta di un capitolo chiuso, ma che riguarda anche lei.

Cambiare il modo

Allora la cosa più importante da capire è che dove c’è un cambio generazionale, ci dev’essere un cambio nel modo di raccontare la mafia. Quando la mafia evolve, deve evolvere anche il modo di parlarne. Credo che sia fondamentale conoscere la storia della lotta alla mafia, perché ti insegna tantissime cose che vanno oltre al dovere morale di opporsi a una organizzazione mafiosa.

Ti educa ad andare in senso contrario e in maniera ostinata se è il caso. E spesso è il caso. A farlo anche quando si è circondati da gente che non fa altro che ripeterti: «È sempre andata così, cosa vuoi cambiare?». O quando ti ripetono in maniera automatica, e anche con un po’ di compiacimento, la frase del Gattopardo che dice che tutto deve cambiare perché tutto rimanga come prima.

Utopie che si realizzano

Negli anni passati il decidere di combattere la mafia perché un giorno venisse realmente sconfitta, era ritenuto completamente folle, insensato. Chi lo faceva era considerato un sognatore, un ingenuo. Sconfiggere la mafia era un’utopia. E si sa che con i sogni e le utopie non si va da nessuna parte.

Eppure oggi un bambino di Palermo ha una vita migliore rispetto a quella che ho avuto io alla sua età. E questo lo si deve ai sogni e alle utopie di qualcuno che ci ha creduto. E se questo qualcuno è stato isolato, calunniato e poi ucciso, è successo perché era circondato da gente che non ha mai avuto questi sogni. Anzi spesso andava contro questi sogni.

E questa è una considerazione che non si basa sui sogni o sulle utopie, ma sui fatti. Io il 23 maggio scendo a Palermo per festeggiare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo e tutti i ragazzi del Quarto Savona Quindici (la scorta di Falcone).

Festeggiare

Lo so che la parola "festeggiare" potrebbe stonare, ma la uso perché io voglio non solo ricordarli, ma anche festeggiarli. E festeggiarli con tutta la gioia possibile. Se ci limitiamo a raccontare soltanto l’ultima parte della loro vita, quella più drammatica, secondo me gli facciamo un torto. Dobbiamo raccontare la loro quotidianità, il loro essere straordinari nella loro assoluta normalità. La loro ostinata volontà di voler cambiare le cose. Dobbiamo ricordare che è grazie a questo atteggiamento che c’è stato un reale cambiamento.
Ciò non gli rende solo giustizia, ma dà un senso a tutta la loro vita, oltre che alla loro morte. E forse costringe a interrogarci sul cosa stiamo facendo invece noi, nella nostra vita, contro le mafie.

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