La pausa pranzo è, nel mondo quotidiano del lavoro, non solo un diritto, ma l’unico momento umano di convivialità, di defaticamento, di tempo per sé stessi che spezza una giornata di produzione continuativa.

Oggi più che mai il lavoro suona diverso: ci sono nuovi ritmi, nuove regole non scritte, nuove paure e moderne modalità di concepirlo. Si rinuncia in maniera maggiore al proprio tempo, ci si sacrifica spesso per capi e clienti e ci si dimentica l’aspetto umano del proprio rapporto con il cibo, sempre più cucinato a casa e consumato davanti al computer, oppure – specie dopo la pandemia – fatto arrivare da una delle diverse piattaforme di delivery.

Ci sono però, in Italia, luoghi che resistono a questa tendenza di assottigliare la propria umanità e diritti. Certamente non sono i pensieri cardine che si sviluppano in questi luoghi, ma di fatto sono oasi di vita che ci riconciliano con il mondo, che ci ricordano quanto il lavoro non sia poi tanto una forma di emancipazione personale, se non economica: le gastronomie.

Ogni giorno, a orario di pranzo, le gastronomie racchiudono in una manciata di minuti un pullulare di vita che difficilmente si trova fuori dai nostri confini e non solo ogni gastronomia parla la lingua della città: ognuna parla la sua propria lingua, il proprio linguaggio, c’è un senso di fiducia tra persone. E tutte, almeno quelle popolari, hanno prezzi ancora democratici.

La storia

Se si guarda alla questione in senso storico, c’è un momento in cui i lavoratori hanno smesso di tornare a casa per pranzo. A partire dagli anni Cinquanta, sempre più lavoratori italiani hanno iniziato a portarsi il pranzo da casa o a mangiare nelle prime mense degli uffici e dei cantieri.

Gli anni Cinquanta, però, sono anche il periodo in cui le gastronomie sorgono come le conosciamo oggi: banchi a vista ricolmi di pastasciutte, secondi, contorni o pizze al taglio. Molti di questi posti sono ancora come erano una volta, letteralmente, e i prezzi si sono semplicemente adeguati al potere di acquisto di oggi, rimanendo come filosofia accessibili.

In uno studio di Nomisma, si vede chiaramente non solo che le abitudini del pranzo stiano cambiando da dopo la pandemia, favorendo sempre più i delivery in ufficio o i pasti portati da casa, sempre più salutari, tra l’altro, ma pure che, per il 20 per cento delle lavoratrici e dei lavoratori, non è un problema fare una pausa di meno di mezz’ora.

Che è preferibile insomma tornare al lavoro per finire i propri compiti il prima possibile. Senza contare quelle persone che lavorano in smart working da ormai più di tre anni. Diciamo non troppo allarmante perché ci sono ancora persone che tornano a casa per pranzo (soprattutto al sud e nei piccoli centri) e c’è ancora soprattutto una percentuale (il 22 per cento) di persone che si allontanano dall’ufficio per comprarsi il pranzo e consumarlo fuori.

Ma è un numero che non si riferisce alle nuove generazioni di lavoratrici e lavoratori. «Dagli anni Settanta lavoriamo come gastronomia diurna», spiegano i gestori di Supplì Roma, a Trastevere. «E se prima la maggior parte dei clienti e delle clienti erano lavoratori di ogni genere, oggi vengono soprattutto studenti delle superiori, anziani e turisti». La fila fuori da Supplì è quasi ogni giorno mediamente lunga e, in effetti, le facce che si incontrano a ora di pranzo sono quasi tutte di giovani persone. Sul banco c’è sempre una tipologia di pasta, a volte anche due; parmigiane di melanzane, cotolette, contorni e gli immancabili supplì. Una porzione di pasta alla Gricia costa meno di cinque euro. «Tra l’inflazione e il fatto che sempre meno romani abbiamo dovuto rinunciare a fare e vendere i polli arrosto, per esempio».

Divario territoriale

Il divario, nello scenario delle gastronomie e delle pause pranzo morbide, è decisamente sproporzionato tra nord e sud: non solo al nord Italia si preferisce stare seduti alla scrivania o, al massimo, sbocconcellare un tramezzino preso al volo, ma si può anche affermare che in luoghi come Milano sono ancora abbastanza i ristoranti di cui si serve chi lavora per sfruttare la pausa pranzo una volta a settimana, ma le gastronomie tradizionali non sono molte. In luoghi come Catania e Palermo, invece, tra gastronomie e street food, mangiare fuori sembra essere la norma.

Caso ibrido è invece quello di Roma, dove appunto la pratica di mangiare fuori ancora resiste, le gastronomie sono ancora diverse, ma stanno scivolando nell’oblio. E se le insegne storiche funzionano proprio in quanto tali, è pure vero che la tendenza a vedere la pausa pranzo sempre più come un momento quasi di fastidio, di interruzione dalle pratiche di lavoro quotidiane e sempre meno come una coccola per sé stessi, rallenta anche il processo di nuovi luoghi. Ci sono insegne – come Retropasta a Roma o Fòla a Milano – che provano e magari riescono a rendere ancora interessante quel momento, ma sono troppo poche, il gioco non vale la candela.

Per gli orari mattutini a cui sono preferibili quelli da aperitivo e per il fatto che mangiare fuori in pausa pranzo non è più una cosa accattivante. Uscire dall’ufficio per mettersi in fila aspettando il proprio turno per poi osservare i piatti, sceglierne la quantità in base alla fame, è un modo pratico di relazionarsi con una vita che stiamo cambiando in maniera radicale. Le gastronomie ci ricordano che l’importante non è mangiare per ottenere energia, ma che è un modo di trattarsi bene primordiale, umano. Il lavoro spesso non lo è.

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