Oltre 55 milioni di persone nel mondo convivono con una forma di demenza. Tra riabilitazione, intelligenza artificiale e “villaggi ritrovati”, scienza e innovazione stanno cambiando il modo di vivere la patologia, alleggerendo il peso sulle famiglie e restituendo qualità di vita ai malati
Il 21 settembre è la giornata mondiale dell’Alzheimer, ed è come se il mondo “fuori”, quello che non è direttamente coinvolto dalla malattia, all’improvviso si accorgesse che esiste. Chi invece ne è coinvolto non distingue fra le giornate: la diagnosi è come se fosse una nuova fase della vita, che riguarda naturalmente chi ne è colpito in prima persona, a ogni ora del giorno e della notte.
Ma forse, ancora di più, riguarda i suoi familiari, che devono prendersi cura della persona che amano e che sembra inghiottita in un vertice che la sta cambiando per sempre. Un po’ ovunque, ci sono persone che devono ricostruire la loro vita, sulla base delle esigenze di chi accudiscono. Diventano genitori dei loro genitori, spesso.
Un’urgenza perenne
Oggi oltre 55 milioni di persone nel mondo vivono con una forma di demenza, numero destinato a raggiungere i 139 milioni entro il 2050, secondo i calcoli dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. In un certo senso, questa è fra le emergenze sanitarie più caratteristiche della modernità: aumenta l’aspettativa di vita, la popolazione è più anziana, e aumentano anche le malattie neurodegenerative. Allora perché non cercare proprio nella contemporaneità una soluzione? La ricerca scientifica fa progressi e la tecnologia può dare un supporto a malati e familiari: quanto sta cambiando il rapporto con la malattia, e quanto potrebbe cambiare ancora?
In Italia vivono 1 milione e 480mila persone con demenza, i costi complessivi superano i 23 miliardi di euro l’anno, di cui oltre il 60 per cento è a carico delle famiglie. Oltre all’aspetto strettamente umano, stiamo dunque parlando di un’urgenza perenne anche dal punto di vista economico.
Lo si legge anche nel nuovo Rapporto mondiale Alzheimer, che sottolinea l’importanza della riabilitazione nella demenza. Attraverso analisi di esperti e casi di studio, dimostra come questa consenta alle persone con demenza di mantenere più a lungo le funzioni cognitive, l’autonomia e la partecipazione sociale, prolungando la permanenza a casa e migliorando la loro qualità della vita. E quella di chi si prende cura di loro.
Mens sana
Il problema è che in Italia e nel mondo l’accesso alla riabilitazione resta limitato. Anche l’Istituto superiore di sanità raccomanda gli interventi riabilitativi e psicosociali come parte integrante dell’assistenza accanto ai farmaci. Sono dunque raccomandati riabilitazione e training cognitivi, perché possono sostenere memoria, attenzione e funzioni esecutive, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia.
È importante l’esercizio fisico, perché contribuisce a rallentare il declino cognitivo: dalle semplici camminate quotidiane alla ginnastica dolce, dalla cyclette agli esercizi di rinforzo muscolare e di equilibrio.
Ma anche la musicoterapia è utile, così come la terapia della reminiscenza (attraverso l’uso di fotografie, oggetti, musica o racconti stimola memoria e ricordi). In più larga misura, tutte le attività creative e sociali hanno un effetto positivo, favorendo il benessere psicologico, la riduzione dell’agitazione e il mantenimento delle relazioni. Le linee guida sconsigliano invece altre pratiche senza evidenza scientifica: come le diete chetogeniche, integratori o multivitaminici in assenza di specifiche carenze.
La teleriabilitazione
Già in questo la tecnologia può dunque dare una mano. Perché, come sottolinea la Federazione Alzheimer Italia, si può sviluppare «una rete di teleriabilitazione su tutto il territorio bnazionale, per facilitare l’accesso ai programmi di sostegno a chi vive lontano dai centri specializzati e a chi ha più difficoltà a spostarsi da casa». È uno degli insegnamenti del periodo del Covid – quando tutto si faceva in streaming o videoconferenza – che si può facilmente, e utilmente, riciclare in questo contesto.
Ma poi nel mondo esistono frontiere più ampie e in parte inesplorate che potrebbero aprire anche ulteriori strade. L’intelligenza artificiale potrebbe in qualche modo dare una mano?
Anticipare la diagnosi
Di sicuro alcuni primi esperimenti riguardano la diagnosi, partendo dal concetto che individuare la malattia nelle fasi iniziale sia fondamentale, per permettere interventi tempestivi e, in prospettiva, terapie mirate.
Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration (Fda, l’agenzia federale del Dipartimento della salute e dei servizi umani) ha già autorizzato software come BrainSee. Attraverso l’analisi delle risonanze magnetiche e dei dati cognitivi, può prevedere se un paziente con un lieve decadimento cognitivo svilupperà l’Alzheimer entro cinque anni.
Ma ci sono studi che sembrano dimostrare che si potrà fare in maniera ancora più estesa, attraverso l’analisi di specifici biomarcatori (come l’analisi della voce o delle espressioni facciali). Una semplice conversazione con l’intelligenza artificiale potrebbe presto permettere di identificare una malattia ancora in fase iniziale.
Ancora di più, l’intelligenza artificiale potrebbe rendere più efficaci, e più estese, alcune prove cognitive classiche, realizzandone l’equivalente digitale. Tutto questo non punta a sostituire ovviamente una diagnosi medica, ma punta ad anticipare il momento in cui i potenziali pazienti si rivolgono a uno specialista. Non è poi così fantascientifico immaginare che un giorno sarà ChatGpt o il nostro orologio a consigliarci una visita di controllo.
Caregiver digitali
Ma la tecnologia si applica anche a chi è in uno stato più avanzato della malattia, per cercare una forma di conforto. La realtà virtuale, ad esempio, permette di rendere più efficace la terapia della reminiscenza, facendo “rivivere” luoghi familiari o momenti positivi, stimolando la memoria e migliorando l’umore.
Esistono poi “caregiver digitali” che puntano a sostituire gli equivalenti umani: forse non è la stessa cosa di avere accanto un proprio familiare, ma possono dare comunque una forma di conforto. Esistono robot in grado di fare conversazione e di registrare lo stato emotivo delle persone con cui si interfacciano.
AdQueryAid, ad esempio, è un sistema di intelligenza artificiale progettato per supportare e rafforzare i caregiver di persone con demenza. Si basa sul modello di ChatGpt, integrato con conoscenze specifiche sulla malattia. Secondo un articolo pubblicato su Nature, dimostra il potenziale dei sistemi di intelligenza artificiale personalizzati nel migliorare l’esperienza dei caregiver, aprendo la strada a future ricerche sul loro impatto a lungo termine.
Al paese ritrovato
Ma non bisogna immaginare che questi esperimenti siano solo lontano da qui. C’è ad esempio il caso, tutto italiano, del “paese ritrovato” a Monza. Una sorta di villaggio parallelo «nel quale le persone, in tutta sicurezza, vivono in appartamenti protetti ma possono muoversi in modo autonomo nella piazza, al caffè, nei negozi e al cinema, così da condurre una vita normale, compatibilmente con la malattia, sentirsi a casa e ricevere nello stesso tempo le necessarie attenzioni.
Un luogo dove le persone con demenza sono libere di scegliere cosa fare del proprio tempo e ritrovano una dimensione di socialità che restituisce valore alla loro vita».
Lì è stato preso in servizio anche Nao, un robot umanoide utilizzato per integrare il sostegno dei caregiver umani. Un modo per mettere la tecnologia a servizio di persone che hanno sì una forma di demenza, ma sono ancora profondamente vive.
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