C’è un prima e c’è un dopo quei 90 secondi e quarant’anni sono pochi per attutire i sussulti della scossa che il 23 novembre del 1980 devastò l’Irpinia. Il terremoto pervade ancora le vite di tutti, nei borghi un tempo asserragliati sulle cime di quell’osso appenninico in cui la linea di confine tra Campania e Basilicata è netta solo sulle mappe geografiche. C’è chi è cresciuto all’ombra della tragedia, superstiti di generazioni seppellite dai crolli. E chi ricorderà per sempre dov’era alle 19,34 di quella domenica, se non è rimasto pietrificato da quell’istante. Emio Liloia, oggi in servizio come vigile urbano a Castelnuovo di Conza, racconta: «Ero in piazza con gli amici, ci eravamo radunati al bar, dovevamo andare a ballare quando arrivò la scossa. Ci siamo abbracciati, pensammo: ormai è finita. Cadevano le pietre dalle case, dopo un’ora si cominciò a vedere qualcosa, corsi a casa: i miei erano ancora vivi ma tanti altri no. È una cosa che vogliamo dimenticare, non ci piace parlarne, a volte lo facciamo e poi ci pentiamo di averlo fatto. Ci siamo salvati, qualunque cosa può essere terribile, tutto cambia da un momento all’altro: un secondo può cambiarti la vita. I miei amici, patiti di calcio, abitavano nella parte distrutta, per fortuna non erano a casa a vedere la partita altrimenti non ci sarebbero più».

Castelnuovo, Conza e Teora furono i tre comuni dell’epicentro e ci vollero giorni per localizzarli e capire quale fosse la strada per arrivarci, mentre da sotto le macerie si levava il coro di grida dei sepolti vivi.

«Ho parlato con mia figlia fino al giorno dopo», ricorda Mario Porreca che quel giorno ha perso la madre, la sorella, la moglie e tre bambini: il più piccolo aveva due mesi. Filomena, la più grande aveva quattro anni. «Mi diceva: “papà, voglio un pigiamino, mammina dov’è?”. Mancava l’aria, ogni tanto svenivamo, era come se ci addormentassimo. Poi mi hanno tirato fuori e ho chiesto a degli uomini di tirare via anche lei e l’hanno fatto ma era già morta. Io non vedevo, avevo gli occhi pieni di calce, mi hanno portato all’ospedale di Battipaglia. Sono venuti i miei fratelli: uno da Losanna, l’altro dal Belgio e mia sorella dalla Germania. Per fortuna erano all’estero o sarebbero morti anche loro. Mi hanno portato qui di nuovo dopo un paio di giorni, non c’era più nessuno. Erano più i morti che i vivi, il momento più brutto fu quando mio fratello mi disse: “Mario tu non hai più nessuno”, io ero convinto che la bambina si fosse salvata ma non c’era stato niente da fare».

A cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza, nei paesi più duramente colpiti, interi nuclei di case costruite l’una sull’altra vennero giù per “effetto domino”. Si trattava di abitazioni costruite scavando nella roccia sui resti di antiche civiltà che si insediavano su queste aspre vette, per dominare i percorsi marittimi.

Duemila e 914 morti, quasi 9mila feriti e circa 300mila sfollati sono i numeri di un dramma che oggi è ricorrenza e che segnò la nascita della Protezione civile. «I ritardi ci sono stati e anche molto spreco, gran parte di questo denaro è stato speso in maniera sbagliata ma questa ormai è storia: dobbiamo guardare al futuro. C’è il rimpianto perché chi allora aveva la responsabilità delle scelte ha distratto fondi per fare altro, resta che non tutta la ricostruzione è stata completata, ci sono famiglie che ancora aspettano la casa», spiega il sindaco di Castelnuovo di Conza Francesco Di Geronimo.

Solidarietà e malaffare: le due facce del Paese convissero anche in questa tragedia che spazzò via per sempre un pezzo di Meridione e la sua placida quotidianità rurale e antichissima. Tutta l’Italia si smosse: arrivò il presidente Pertini, poi l’esercito. A Balvano, nel potentino, gli abitanti si ritrovarono in piazza con Papa Wojtyla, a pregare per i 66 bambini schiacciati dal crollo di un campanile.

E mentre i soccorsi tardavano, centinaia di volontari scavavano a mani nude nel magma di macerie. Tra loro, gli operai della ditta “Ferro e cemento” che stava costruendo sul fiume Ofanto, e i cui tecnici già all’indomani misero a disposizione il loro cantiere per la popolazione superstite di Conza. Aveva appena 30 anni l’allora sindaco di Conza, Felice Imbriani.

«Presi coscienza di essere sindaco – racconta – quando arrivò il terremoto. Ero ospite di parenti definitivamente rientrati dal Venezuela. La scossa mi colse ai piedi del caminetto, mi trovai sbattuto sulla parete opposta: istintivamente andai verso il balcone, mi aggrappai alla maniglia e scavalcai. Come riuscì a restare in piedi vidi che la parte alta era coperta da una nuvola bianca che pian piano si abbassava: mi resi conto che Conza non c’era più».

Il post ricostruzione

Oggi Conza sorge a valle: le ampie strade sono costeggiate da villini a due, tre piani al massimo e restituiscono un esempio virtuoso di ricostruzione, al netto dei brogli racchiusi in inchieste ormai congelate dal tempo. Il borgo antico è interamente crollato e non sarà mai più centro abitativo ma zona archeologica: Il terremoto ha raso al suolo tutto e dalle macerie di Conza è venuta fuori Compsa, città che risale al terzo-quarto secolo avanti Cristo. La Soprintendenza locale ha riportato alla luce strati di civiltà che si sono sovrapposte nel tempo. Gli ultimi reperti sono di epoca romana: il foro, l’anfiteatro e le terme. «Credo molto in questo progetto che sarà per Conza motivo di sviluppo turistico, è questo il luogo da cui ripartire», dichiara l’attuale sindaco Luigi Ciccone.

Il mancato sviluppo economico sembra essere il vero smacco della ricostruzione per cui i soldi stanziati non furono pochi: circa 30 miliardi prima e poi altri 25 di vecchie lire. Ma intanto da anni, da questa terra, vanno via tutti per cercare lavoro. «Il dramma adesso – spiega Michele Carluccio, architetto originario di Conza – è che ci troviamo più case che abitanti. Le case sono nuove, sicure e costano poco ma da qui si fugge perché mancano i servizi: scuole, un’assistenza sanitaria adeguata. La classe politica all’epoca si affidò agli imprenditori del nord che hanno ricevuto finanziamenti a fondo perduto e ne hanno approfittato: sono venuti qui, sono rimasti per tre o quattro anni e se ne sono andati. Questo è stato il vero fallimento: oggi abbiamo più stabilimenti dismessi che funzionanti. Ma sono fiducioso: lo smart working conseguente al Covid-19 può aiutarci a ripopolare la zona».

Angelo Cerracchio, giovane ristoratore, racconta: «Sono di Conza ma sono nato a Foggia. A sei anni sono venuto qui con la mia famiglia qui perché mio padre trovò lavoro. C’erano le nuove aziende metalmeccaniche, era un periodo di ricchezza economica. Ho iniziato ad andare a scuola nei prefabbricati, abbiamo vissuto nei prefabbricati per 15 anni. Oggi gestisco un ristorante storico, l’unica costruzione del vecchio borgo rimasta intatta perché era già antisismica. I “paesani” ci sostengono soprattutto con l’asporto ma qui vengono perlopiù da fuori, in estate, e se siamo pieni o non siamo in grado di soddisfare le loro esigenze non li mandiamo via ma in altri ristoranti: creiamo un circuito, ci aiutiamo tra di noi. Tanti ragazzi vanno via per studiare, non ci sono aziende abbastanza grandi per gli studi che fanno ma in questo periodo stanno tornando in molti “giù”, perché nemmeno “su” la situazione è buona». Chi resiste, oggi, quasi si affida all’esodo inverso, generato da un altro dramma: la pandemia dei giorni nostri.

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