Il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri ha detto oggi che non c’è alcuna «pressione» sui reparti di terapia intensiva del nostro paese. «Attualmente ci sono circa 3.400 ricoverati in terapia intensiva», ha continuato, «su circa diecimila posti». Si tratta però di affermazioni come minimo fuorvianti e che danno un’impressione falsa di quella che è la situazione sul campo.

Quando Arcuri dice che avere circa un terzo delle terapie occupate da pazienti Covid-19 non è un problema, infatti,  sembra trascurare che in una situazione normale circa il 70 per cento dei posti in terapia intensiva è occupato da pazienti non Covid-19. Si tratta di vittime di incidenti, di pazienti con altre patologie o di degenti usciti da delicate operazioni chirurgiche che necessitano di assistenza respiratoria. 

Per questa ragione, le autorità sanitarie hanno stabilito di fissare una soglia di allarme quando più del 30 per cento dei posti in terapia intensiva viene occupato da malati Covid-19. Secondo i dati ufficiali diffusi dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, questa soglia critica è stata superata ormai da una settimana e attualmente il 34 per cento delle terapie intensive in tutto il paese è occupato da pazienti Covid-19. Questa soglia è così importante che costituisce uno degli indicatori chiave per determinare il passaggio di una regione dalla zona gialla a una arancione o rossa.

Superare questa soglia significa infatti che i reparti di terapia intensiva sono ormai pieni e che quindi il sistema sanitario in generale inizia a entrare in crisi. Arrivati a questo punto diventa necessario rimandare operazioni già calendarizzate o spostare pazienti in altre strutture. Per intubare un paziente diventa necessario attendere che si liberi un posto e sperare che nel frattempo la sua situazione non divenga critica. 

I dati nazionali sulle terapie intensive confermano il quadro di Arcuri, ma non tengono conto delle situazioni diverse sui singoli territori, dove alcune strutture sono già piene e altre hanno superato abbondantemente la soglia.


Un’altra possibilità è aprire nuove unità di terapie intensiva, ma questo è un compito molto più difficile di come potrebbe sembrare ai non esperti. I letti di terapia intensiva sono unità mediche complesse, costituite dal ventilatore necessario per effettuare la respirazione artificiale e da una serie di specialistici, medici e infermieri, che devono monitorare costantemente il paziente. Visto che non ci sono specialisti in più e formarne uno richiede anni, aprire un nuovo letto di terapia intensiva significa mobilitare personale sanitario normalmente addetto ad altre funzioni e in genere preparato soltanto in modo sommario al nuovo ruolo che deve svolgere.

In altre parole, superata la soglia critica, peggiora la qualità dell’assistenza ai pazienti non Covid-19 e allo stesso tempo peggiora anche quella delle persone positive al coronavirus, poiché i tempi necessari per essere intubati si allungano. Nelle situazioni peggiori, i medici si trovano costretti a scegliere chi intubare tra due o più pazienti in crisi respiratoria.

Arcuri sembra inoltre ignorare il fatto che se la soglia è appena superata a livello nazionale, in alcune regioni la situazione è ormai decisamente critica. In Veneto, Piemonte e nella provincia di Bolzano, l’occupazione delle terapie intensive è ormai oltre il 50 per cento, mentre Liguria, Piemonte, Tosca e Valle d’Aosta sono vicine e a questa percentuale.

Arcuri sbaglia anche un ultimo dato per sostenere la sua tesi. Ha detto che al picco della prima ondata avevamo oltre 7mila pazienti in terapia intensiva, duemila in più della capacità disponibile in quei giorni e quasi il doppio di quelli ricoverati oggi. Ma è falso. Il record dei ricoverati in terapia intensiva, toccato lo scorso3 aprile, è stato di 4.068.

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